Monthly Archives: Luglio 2010

Pi per trentotto

Esproprio gastronomico: riscaldare cucchiaini e affogarsi di luna. La fame di lontananza ci divora in nascondigli troppo ovvi dove perdere cellulari e telefonate che non si vogliono sentire che non si vogliono scoprire. Poi toccherà a noi in autogrill fatiscenti gestiti da licantropi in via d’estinzione e segretari ammaccati. Non trovateci più. Annegare in autostrade con carrozze maschili che aumentano le statistiche di morti da vacanza famigliare che partono nelle ore giuste per non trovare traffico tutti insieme. Erano le donne a non saper guidare sono molto machi i condottieri nelle loro esibizioni a trecentomila chilometri di depressione e stupri da cose che capitano. Non tornare non tornare non guardare indietro per non correre troppo veloce. E se vengono a prenderci faremo l’autostop a cani randagi per farci raccontare le storie di quando tutto era campagna. L’ironia l’ironia l’ironia morta spiaccicata in qualche  televisore con troppe gambe, troppe. E poi quella dei blog . Crepare in questo niente.  Volevamo solo un po’ di burro. Condito con del sole. Le nostre cenerentole rivoluzionarie che lottano contro la prigionia del lavoro domestico fanno saltare in aria i cavalli dei principi di fronte a castelli nobiliari. Principe azzurro vai a fare in culo dai loro vestiti catarifrangenti. Ci pensiamo noi a mettervi i cerotti sulle ginocchia e ad augurarvi la buona notte  a cantare la ninna nanna alle vostre colazioni pomeridiane che siete stanche con le ciglia sempre curvate. Ci pensiamo noi ad arrenderci un po’ alla volta e piangere per poi ricominciare in dolori da far deviare. Quante lacrime soffochiamo da quante lacrime ci facciamo abbracciare. Le uniche piitrentotto che ci sono rimaste sono delle lunghissime bilabiali ma vogliamo solo un po’ di burro per favore. Corrompiamo i medici per cancellare le malattie delle nostre lingue ingiallite. Per i nostri giorni andati a male non c’è altro da fare che farci male.        

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Perché?
Perché ancora concedo il taglio dei miei occhi al riflesso dei tram?
Non mi porta neanche fino a casa. Le fermate bruciate. Le botte. E continuo a fissarmi …

Cucchiai crudi

Sanno di casa le vene inseguite dalle infermiere con sorrisi da cuscini per coccolare le nostre pressioni sul filo dell’apocalisse. Anche i soliti cappuccini sanno di camino.  Oggi mi fanno piangere, i cappuccini.  Fanno venir voglia d’inverno e dei tuoi pomeriggi alla soglia della democrazia. Le sarte che curano i tuoi giorni più belli mai assenti neanche nei miei tormenti e negli svenimenti d’inizio stagione. Si deve lavorare guadagnare partire e te ne andrai fingendo di stare ancora qui a raccontarmi di pagine stampate male e mal governi accademici. Ma non ci casco cosa credi? Torna prima d’andar via. Rimandare all’infinito gli aeroporti i porti  e i portami con te. Ti lancerò le mie lacrime per farti male impacchettati con sorrisi da film di serie b. Le commedie tedesche di fine anni ottanta.  I jeans a vita alta sbiaditi e i lunghissimi capelli biondi senza frangetta senza piastra. Non si capisce bene come mai tengo ancora la televisione accesa. Anche se penso alle ragnatele subito dietro. Ai muri da colorare e a quel libro che ancora non ho finito e l’ultimo che mi hai regalato con descrizioni sessiste ma ti ho comunque detto grazie.  Sprofondata  nel nero di questi cuscini scuri come i miei occhi i miei capelli e il mio pesante vestito. Si chiudono gli occhi sopra cerniere forzate che nessuno salverà clandestine dei migliaia di chilometri dalla superficie. Le sentirò sbattere sopra il portone per far scintillare le parti sconosciute della mia memoria per affogarmi nei fumi premestruali  e rossori pulsanti. Andar via fra i miei tramonti e una ciglia su uno zigomo. Ma sei tu che parti. Per tornare il più tardi possibile e soffocare fra necrologi di amori e telefonate troppo facili. Una cucchiaiata dei miei sorrisi amari come carta da regalo che sono come un  attentato alle tue decisioni che profumano di pane . E i miei minuti a rincorrere la felicità irrespirabile e densa. E l’odore te lo porti sui vestiti tutto il giorno. Una di queste sere tornerò a casa e sarà ancora lì la televisione su televendite coreane senza rumori di addii e i fuochi d’artificio della festa di paese da guardare. Un “ancora” agghiacciante questo divano appiccicoso su cui bestemmierò per trovare una soluzione ai piatti che mi hai lasciato da lavare. Le mie sigarette sgocciolano  sangue su cui farti scivolare su cui farti vomitare. Le mie corse sono stanche di vedermi ansimare. Il divano. Con briciole cicche tazzine di caffè sudore cenere e un odore terribile mi mangia. Devo alzarmi. Le stagioni continuano. I colori si innamorano di me e delle mie primissime rughe che si chiedono come sto, senza lasciarmi  un solo istante distante dal  loro tepore affettuoso . Dalla mia finestra  vedo arrampicarsi pesche noci dolcissime vengono a prendermi  per rinfrescarmi e  farmi tirare su col naso la notte colante. L’alba sa di panna.


Inadeguate ciglia bancarie

Sarebbe stato bello prendere la coincidenza Milano Bratislava per scendere poi a Malaga. Non conoscere neanche lì la lingua se non le nostre.  Abbiamo sempre un mare di troppo  fastidioso un po’ cialtrone un po’ avaro. Viaggeremo in macchina su autostrade da telefilm che in fondo l’hanno fatto in tanti anche se qui rimane la  paura di guidare di notte nella strada per l’aeroporto cosi degradante che a chi me lo chiede dico che qui gli aerei non li hanno ancora scoperti . Cosi come la tv dei turisti milanesi, come gli amori notturni a luci alternate bianche e blu. Avevano detto che con internet e i servizi onlain sarebbe stato tutto più facile. Indebitata, io,che sono entrata in banca con il codice fiscale nella tessera sanitaria rosa. Ed una borsetta che sembra una busta della spesa come le signore grandi che hanno il carrellino scozzese per il supermercato ed un golfino di cotone anche a ferragosto. Sempre stanche, sempre di corsa, sempre con qualcosa da raccontarti. Acquisti virtuali inquietanti e spaventosi che non permettono errori. Sicuramente ho sbagliato qualcosa e da Termini prenderemo il notturno per Bydgoszcz. La tecnologia saprò esattamente dove sarai.  È una questione di emancipazione anche questa ma per favore non mi far parlare da sola con l’uomo dietro il vetro.  Questi vetri che non si capisce un cazzo quando parlano e poi sei l’unica che urla. Le persone dietro  qualcosa un po’ mi impauriscono: l’autorità data dalla scrivania da un vetro da uno sportello, insomma basta che le gambe non si vedano . Un giorno sarà tutto più facile. Rispettabile, un aspetto rispettabile. Magari togliti il cappuccio che poi qui pensano male mi dici. Il solito borghese.. Farai dei progetti interspaziali per salvare il mondo se paghi tu le spese io vado. Adesso sembro un po’ più ricca. Ma è una finta : non è che non capisco non voglio capire!Debitrice. Per sempre. Le banche ti fanno credere di avere più soldi e io sembro rispettabile  in un gelido mal di pancia. Il tuo comportamento non lo è stato nonostante lo scontrino della maglietta nonostante i miei capelli stanchi.  Le banche che ti seguono ed avrò paura di girarmi ma io non la voglio. Non lasciarmi sola con lo sheqel israeliano che in realtà non vuole proprio cambiare. Se qualcuno mi chiama per debiti pagherai tutto tu. Quando perderò la carta cosa dovrò fare? Non ti preoccupare dopo ti rispiego tutto. Senta io non ho soldi non voglio dare un euro  a questo posto ma voglio evitare tasse intergalattiche: se dico così va bene?  Signorina firmi qui, no qui, le ho detto qui!


Illusioni di tramonti estivi da riformulare

Neanche una poesia di qualche intellettuale sconosciuto che mi consoli. O dei versi in francese da leggere a voce alta, di quelli che distruggono la lingua che ti fanno piangere perché  avevi tempo  voglia o bisogno. Pensando che con qualche lacrima si risolva tutto, un pedaggio da pagare per errori che difficilmente si cancellano e tornano tornano tornano. Ma il collage continua, in rime banali quanto le nostre vite e vite stonate  da poesie anti-lessico. Vivere a metà tra sogni scritti mali e in fretta e sofferti manco fossimo in galera, tra rassegnazioni ai tumori della prevenzione tra rivoluzioni e mestruazioni invocate. Confusioni di mondi. E di affetti. Io son ciò che scrivo o ciò che scrivo è me? O mi faccio scrivendo o il scrivendo si fa me? Insomma è sempre la solita storia: chi si fa chi? Che banalità sintetiche. In questi circhi con finale già raccontato, in prosa o in doglie che differenza fa, saluto la solitudine di chi consola e per favore ora urla  quei versi polacchi trovati per caso sconosciuti anche al caso.

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Perché?
Quando non c‘è il problema c’è. Il mare piatto e calmo mi agita più di una bufera. Sono bufera o sono silenzio.

La colla sul grembiule

 

I disegni dei bambini appesi sulle finestre degli asili mi ricordano i poster nelle celle dei carcerati. Anche gli studenti adolescenti ogni tanto si suicidano come i detenuti in quegli edifici con guardie in divisa o in camicia . Ricreazione e ore d’aria. Oppure mi vengono in mente i fiori sui comodini degli alveari sovraffollati per  ammalati o le foto di nipoti trasparenti nelle stanze di case di riposo per  anziani ormai inutili e  dimenticati. Almeno per le nostre speranze romantiche quelle con i denti da latte e le guance sporche di cioccolato c’è l’estate; per qualche giorno non moriranno come d’inverno poco alla volta dietro i banchi di scuola sperando che nessuno dia loro un voto sperando che nessuno imponga silenzio ai loro infiniti  e dolcissimi perché. 

 


Ancora non ho imparato a mangiare e non chiedermi più di pulirmi la faccia.