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Caro Diario…

Con questo testo ho vinto il concorso “Caro diario..” indetto dalle Messaggerie Sarde di Sassari

30/05/14

Domani si va al mare. Cascasse il mondo. Lo so, sono stanca, sono in piedi da presto con mille tormenti che non mi lasciano mai. Come le telefonate di qualche zia maledetta: hai studiato così tanto per cosa? Dopo tutti questi sacrifici non trovi davvero nient’altro? Ci penso e ripenso. I loro pregiudizi e gli aliti pesanti: come fanno ad avere lo stesso alito di quando ero piccola. Vorrei vedere loro alzarsi ogni santa mattina e non avere neanche la forza di bestemmiare. Con le foto della laurea che ti guardano e speri ogni giorno di dimenticare un bel ricordo di quando pensavi di poter diventare chi volevi. Sono stremata. Ma domani andremo al mare, solo i miei malumori e te. Sarà che è sempre a quest’ora poco prima di cena, nel vuoto irrisorio tra il rientro a casa e la cena, che i pensieri si impiantano tra le lavatrici da fare e i post-it sparsi sulle pareti. E ogni volta mi dico: se solo non ti buttassi sul letto con il giubbotto ancora addosso magari questa centrifuga di ansie la eviteresti. Dovrei accendere il computer appena entro, e sprecare meno carta, darmi un tempo di scrittura e subito a mangiare. Ma non cucino mai. Pochi euro per non avere anche la fame di mezzo e i piatti da lavare. Per l’acidità di stomaco e scontrini ingombranti si può sempre rimandare.

E poi mangio sempre sola. Perché quando rientro tu attacchi e sei già sommersa di patatine e spritz. Tu Lavori sempre la sera io sempre il giorno. Come dobbiamo fare per incontrarci nella stessa casa?

Era tutto incluso: 200 euro con condominio, fuori porta, i tuoi capelli lunghissimi sul cuscino e qualche rara gioia esclusivamente nel fine settimana. Un giorno però vengo al bar e ti rapisco: prendiamo a calci gli ubriaconi e le noccioline, che lo sanno tutti che fanno male, ti aggiusto i capelli che fanno sempre schifo e ci baciamo forte di fronte a tutti. Alla faccia di quel pezzo di merda del tuo padrone: copriti i tatuaggi e truccati un po’… non vorrai mica far venire il dubbio ai clienti se sei o no una femmina? Forse possiamo anche pensare di rinchiuderlo nello sgabuzzino. Ma l’importante è andare via. Dai coinquilini sporchi, e dai lavori di merda, e dalle vite inseguite che non incontreremo mai. Senza valigia, e con tanti giorni andati da cancellare che ci costringono in un continuo confronto tra quel che volevamo e come ora sopravviviamo. Ma domani andiamo al mare.

Sempre con i soldi contati per il regionale puzzolente. E poi litigheremo per la colazione al bar che dici che non c’è bisogno che abbiamo fatto la spesa. Ma a me stare seduta lì a chiacchierare appena sveglia piace, con lo zucchero a velo sparso ovunque e quel quotidiano schifoso, con i tuoi sbadigli ricoperti dal tuo smalto mangiucchiato. Si ferma tutto: speranze deluse e lavori a singhiozzo. Non me la deve togliere nessuno, bolletta del gas compresa. Finalmente è l’ora del mio riso cinese da due euro, un altro giorno finito o sprecato.


Mi ricordo

Mi ricordo la prima volta che ti ho baciato. Avevo le calze rotte e un po’ mi vergongnavo

Mi ricordo quando Elena è guarita, sei piombato in assemblea con tanta gioia e una bottiglia in mano. Sopra c’era il bollino del 30% della coop.

Mi ricordo il primo giorno che ho potuto scioperare. Niente a che vedere con il primo giorno di lavoro.

Mi ricordo l’ultimo corteo a Roma, gli scontri a San Giovanni, e il bruciore dei lacrimogeni. Per fortuna avevo mangiato bene in una spaghetteria e avevo messo le scarpe comode.

Mi ricordo quando mi hai lasciata. Non ho mangiato per un po’ anche quando mamma mi ha fatto le polpette al sugo. Ancora me ne pento.

Mi ricordo dell’Argentina anche se non ci sono mai stata. Mia nonna, mia zia e mia mamma sono eccentriche e invadenti. Bevono mate, non parlano bene l’italiano e hanno degli zigomi bellissimi.

Mi ricordo a prima stanza a Bologna, era più piccola di un ripostiglio e ci stava solo il letto. In Bolognina ci trovi tutto e a volte guardando Piazza dell’Unità mi chiedevo se avessi bisogno di Piazza Maggiore.

Mi ricordo quando ho fatto l’amore la prima volta. Ero a casa in un’amica che ha il papà vigile urbano. Solo tempo dopo ho capito cosa è realmente un orgasmo.

Mi ricordo quando è nata Giulia. Non me ne sono fatta una ragione e ho detto a tutti che era un alieno trovato in giardino. Non potevamo lasciarla sola.

Mi ricordo la prima volta che ho guidato senza patente. L’illegalità con una 2cv è più divertente.

Mi ricordo la gita scolastica dell’ultimo anno di liceo: Barcellona, l’arte, le birre, la camera d’albergo. Ho pomiciato con il più carino della scuola e ancora me ne vanto.


La finestra

Hai sbagliato dal primo giorno. Non basta l’inconfondibile accento emiliano. Non basta che da grande farai il medico, anzi il medico senza frontiere. Non basta che sorridi, che sei carina e ti vesti bene.

Hai parcheggiato la bici in malo modo e questo non è tollerabile.

Sotto la mia finestra un gruppo di anziani complotta contro ogni giovane e contro ogni immigrato. Sono il peggior stereotipo dell’anziano medio borghese di Santo Stefano e salvano solo Alam 40 enne del Bangladesh proprietario della bottega attaccata al mio portone, servizievole e gentile che salva il culo a tutti quando manca la camomilla, il latte o la pastina per la minestra. Alcuni di questi vecchi vivono nel mio palazzo, votavano Dc ora Lega vogliono più polizia e più lampioni e hanno una strana apprensione quasi ossessiva per le biciclette.

Posizionati tra l’incrocio con via Dagnini, la pasticceria e l’edicola che vende solo Il Resto del Carlino, osservano agguerriti ogni bici, ogni ciclista, ogni parcheggio fantasioso dettato dalla totale assenza di rastrelliere. Godono proprio tanto quando leghi la bici alla ringhiera sbagliata e tremano di fronte al bivio: chiamare la municipale o fare una bella ramanzina?

Tu eri il nostro punto forte, per noi quattro giovani in un palazzo che sta per morire. Niko è un immigrato artista, Antonio è un calabrese con i capelli lunghi e forse per i vecchi è peggio che essere straniero, io straniera lo sono in parte e ho i capelli troppo corti. Tu con tutte le R di Parma dovevi sfondare e assicurarci una vita gioiosa fra i vecchi di Santo Stefano, che a loro interessa solo da dove vieni e da quanto tempo abiti in zona. Certo tu sei giovane ma con qualche aneddoto sulle vacanze a Rimini e le parrocchie della provincia ce la saremo cavata. E invece no, quella bici lasciata un po’ storta tra il marciapiede e la strada ha dato via all’odio profondo che i vecchi provano per i giovani. Loro al fatto che io mi alzo alle 6 per andare a lavorare non ci credono, che sono laureata con il massimo dei voti ancora meno. Noi dormiamo tutto il giorno e quando usciamo facciamo paura, distruggiamo gli alberi del quartiere legando le bici, che si sa sono pericolose. Secondo me a Bologna se non hai una bici sei un po’ sfigato e se ce l’hai e non la usi forse sei pure stronzo. Per me se abiti a S.Lazzaro e lavori a Casalecchio ci devi comunque andare in bici. Bisognerebbe dare 1,30 euro a tutti quelli che pedalano tanto, abolire le auto in modo che nella mia via gli alberi non sembrino di plastica e i camion non ci tormentino più. Forse senza tutto quel trambusto i vecchi smetterebbero di trattarci male, toglierebbero dalle loro cantine le loro bici e sfreccerebbero per il Lunetta Gamberini fino al Savena e magari si ricorderanno che a liberare Bologna c’erano anche gli immigrati, immigrati giovani polacchi, probabilmente in bici.


Cv

Dal prossimo anno i bandi straordinari avranno come finalità i nostri nomi. Sperando che non ci lascino morire così che intanto a noi non ci verrà difficile. Chissà cosa abbiamo fatto di male per meritarci l’aumento del cappuccino del 10 per cento, tu che lavori la mattina e io sempre il pomeriggio, l’idonea non beneficiaria di tonnellate di speriamo che questa volta vada. Le lancette delle otto ore, puntate al minimo indispensabile per assaporare le nostre distruzioni a piccoli sorsi, piano piano farà meno male. Che cosa dobbiamo fare. Che cosa dobbiamo inventarci. Se non ci credi non troverai mai lavoro. Moriremo di non lavoro. Operaie della disperazione senza reddito garantito a mala pena sognato. Essere schiave del padrone o dello stato: a me odiarvi piace tantissimo. Le nostre identità hanno smesso di litigare che non hanno più niente da vincere. Una moneta per ogni tuo problema risolto. Non basteranno miliardi di ore di autocoscienza per levarmi il gusto di vedermi indispensabile e far finta di essere invincibile mentre ricomponi le mie lacrime senza farti scoprire. Ricordati che ho paura del buio: non accetto lavori dove senza le lampadine, vicino a cimiteri infestati dagli spirit, o dove bisogna collaborare con chi ha già definito la propria identità di genere, o dove il lavoro effettivo superi il tempo delle pause. Si raccomanda serietà e nessun sorriso.


La colazione al bar

I dati istat parlano solo di me e di te. Non risultano le infinite lamentele e le tue risate dolcissime che disegnano un adagiarsi alla vita poco scelta. Come mi sorridi tu a raccontare le nostre inesattezze. Svegliarsi: abbiamo sbagliato tutto e tutto il giorno a creare i nostri piccoli profondi mondi senza rimborso spese. Mi lamenterò tantissimo anche stasera. Ci sono abituato. Eppure c’eravamo preparati a tutta questa ansia e insoddisfazioni laceranti.  Leggiamo tanto, anche le riviste. Non ci salverà niente. Occupazioni spregevoli: non interessa a nessuno se all’esame di metodologia hai imbrogliato. Non saremo mai delle belle persone, solo sopravissuti a tutti questi volti soddisfatti con le giacche di velluto e stage infiniti gratuiti: che fa bene al curriculum morire sorridendo.

 Disperati sempre schiavi mai.

Il caffè al bar. Lontano da migliaia di coinquiline giovani, belle e con tanti bei scopi nella vita salvare il mondo o rendere felice qualche amica. Colazioni felici: almeno una gioia, che ti costa?
Cerchiamo di vestirci bene e non dare a vedere troppo che in fondo va bene così, per lo meno una volta alla settimana ogni due. Annoiarci ci viene male, sopravvivere è il problema. Superflui. La ricerca costante e indesiderata di trovare la risposta a “ e tu cosa fai?”. Scaffali di supermercati, biblioteche, giardini pubblici, centri sociali, file al cinema, agenzie del lavoro, bagni pubblici: noi non ci siamo. Se non in una versione incompatibile con tutto ciò che è fuori di noi. Almeno non avremo mai il tempo di farci venire in mente la folle idea di raccontare ad alta voce quando e come ci divertiamo quasi a rivendicare la ridicola appartenenza ai sabato sera, ai giovani che in fondo non si arrendono, all’ottimismo e a tutte le persone simpaticissime che con la solita faccia di culo sorridono a chiunque. E tutti a chiederti come stai. E tutti a sbatterci fuori:  mai la risposta giusta. I lavori di merda: ricordati di esserne grata. Vomitiamo nei giorni feriali, nascosti dietro cataste di sogni infranti e ghigni mai stanchi. Il nostro sport preferito: vantarci in silenzio di cose poco interessanti. Volevamo scrivere, parlare di più. Contribuire al dibattito. Il dibattito, lo adoriamo. Inutile come noi. Per niente attraente. Manca solo la nostra disperazione. Neanche più le forze di parlare d’amore prima di dire, bene ora sono stanca. Di prendere baci e carezze in scorta per le prossime guerre. Con poche armi non violente, un po’ di spavalderia, e un sacco di citazioni poco famose, di quelle che possiamo anche non ricordare bene. Adesso una camomilla che fa passare ogni male. Vieni da me non c’è umidità, o soffitti troppo alti a ricordarti che ci sono anche cose belle in questa città con nebbia intransigente e topi giganti: vieni da me, c’è pure la radio.


E ad un certo punto non piove più

La serenità di liberarmi di te. Tutte le tue crisi, sempre le crisi, tue tue tue. Tutte le cose sbagliate dette, quelle fuori luogo, quelle che offendono, che non ci stanno che dovevi tenerti: svanite, finalmente. I tuoi messaggi angoscianti sui miei debiti su tutto quello che avrei dovuto. Su tutto quello che non era mai abbastanza. Tutti i miei consigli mai ascoltati, le mie parole buttate, quando ti servivano e quando mi servivano. La pace sociale diceva il tempo è sufficiente per non farti odiare. Macché guerra, la diserzione è una virtù, con eleganza s’intenda. E ora basta con questi tanto tutti troppi. La tua presenza infinita e martellante. I miei spazi derubati passo passo. E se per caso dicessi che forse non è il caso di tutto questo mescolamento ossessivo, ricerca svilente di sicurezze morsicate, di non capire quello che ti voglio dire. Non bastavi a te stessa volevi pure me. L’amore sacrificio dicevamo da bimbe. Insieme cresciute dicevamo che è solo piacere. Purtroppo, siamo state noi a confermarlo. No non mi manchi. Il tuo modo di vestire finto-post-qualcosa. I tuoi discorsi poco attendibili, i tuoi divertimenti ancora meno. I tuoi capelli che perdevi ovunque. Le tue espressioni le conosco troppo, e mi hanno annoiato diventate maschere. Tutto ciò che non sei più, quello si, mi manca parecchio. Quando eri invincibile e se non era così lo sapevamo solo noi due. Quando uscivi senza trucco. Quando eri curiosa e volevi ascoltare e chiacchierare e mi dicevi questo non lo so. Quando avevi voglia di raccontarmi delle belle cose, le piccole cose che ancora coglievi, senza vanto, e pochi fronzoli artificiali. Eri buona come le pesche noci mangiate in silenzio. L’hai venduto per nulla. Mi sbriciolavi. Ed ero lì a sprecare fiato.


Guai

Se ti dico che andrà tutto bene non crederci. Se ti dico che ti amo così tanto da sopportare i tuoi difetti non ci credere. La sopportazione e il sacrificio lasciamoli ai preti, a qualche prete. E falso buddisti presuntuosi. Perché prendersi carico di un’altra esistenza non lo auguro a nessuno, il negarsi per qualcun altro, soffrire, stringere i denti. Lanciare piatti, nervosismi, pianti, mi sa che stasera dormo fuori. Condividere è altro. Non voglio spiegarti perché non torno a cena, perché le riviste e la carta sparse per me non è disordine ma una mia espansione, perché invece le gocce di caffè non devono essere contemplate né in questo sistema né in una società utopica. Non voglio dirti perché faccio il letto prima di uscire, sempre, anche se rischio ritardi esagerati, se non faccio colazione e lavo la tazzina a giorni alterni. Perché il tuo disordine non è il mio e non è degno di noi un discorso così infimo. Con tutto ciò che ci circola attorno e dentro e poi sfuriate volgari. Tu che non sai fare niente, potresti smontare le convinzioni di ogni profondo liberare anti open source ma la tua capacità del rapporto col quotidiano è come l’effetto di un progetto politico basato sul vestirsi male. E a me e a te le camicie stanno alla grande. Per ogni primavera troppe parole per ogni giacca per ogni pasto per ogni briciola per ogni ora giustificazioni del tuo non saper non voler fare. Io non potrò mai sbagliare, i tuoi sbagli diventano stanchezza da consolare. Il patriarcato è dietro l’angolo e io non sono l’angelo emanicipatore. Meglio amare i tuoi difetti, per modo dire, nascosti. masochismo inutile. Magari se capita per qualche giorno, finché il mio piccolo letto non mi salverà con il tuo mal di schiena. No non andrò in farmacia per te. Riserviamoci l’emozione, seppur vecchietta, di pomiciare al cinema. Anche prima del film. E di dirci ci sentiamo domani.


Carta

Dio se ci credevamo. Mai stanche mai sazi mai affaticate. Di casa si usciva poco che non avevamo mai il tempo di rientrarci per scrivere a dieci mani dieci poesie o di mail di pancia, di ante crisi e sintesi di piccoli incontri speranzosi, un po’ festosi un po’ insanguinati. E le dita pasticciate e gli occhi spremuti dallo schermo. Sepolte dalla carta. Quella rubata da rivedere da mangiare da appuntare conservare a ogni costo. Sono tornato da parigi con 15 kg di carta e per te ci sono dei bellissimi adesivi. Autogestion oui elections non. Uno per me uno per ricordo uno per l’archivio/i. E poi studiare in continuazione centro delle giornate fra caffè terrificanti e rincorse ad esami, accademici singhiozzi e incontri rigidi cercando consigli per uscire con un po’ di dignità. Documenti, serie, fascicoli, faldoni, librerie, centro di documentazione, fotografie, volantini, trascrizioni, articoli, riviste, lettere. Attorno ad altra carte da sapere meglio del solito, o almeno ci si augura, si ricompongono giornate mai abbastanza ragionate che chiedono pietà urlando il nome della via di casa.. Cene che non vedono fornelli e coinquiline da tanto ormai non se ne contano più, meglio riusciti lunghi aperitivi low cost made in bangladesh con nessun grado e chiacchiere affettuose. C’è chi le nottate se le organizza ben benino incastrando incontri amicizie dibattiti e sbronze e chi arrivando in ritardo ti convince ad andare da tutt’altra parte ritrovandoti a sfogliar l’agenda sul notturno. Notturno meraviglioso se si ritorna dal festival punkoiska più riot-trendy del nord. Sembrava mezzogiorno in zona universitaria. Quella manciata di turisti a chiedere “univerisitiarea?” e sorridere farfugliando un itshiar e sentire ancora una volta la sensazione di quando avevamo capito che nasceva un amore travagliato, da grandi, emozionante come le notti passate a casa da sola senza aver paura ( o almeno senza dover per forza raccontarla) o la prima spesa alla coop senza farsi fottere sul resto o sulle offerte. Amore di grandezza denso un impasto in cui sprofondare piano piano. Fingersi una cilena in vacanza o in erasmus, parlare poco e fare foto. La reflex la usano pochi la sfoggiano in troppi. Io troppo povera per entrambe. Le biciclette i ragazzi strani in una strana città italiana e quella rete dei lavori in corso sepolta da milioni di foglietti diventati illeggibili per l’affollamento. Ci puoi trovare qualsiasi cosa quanti sono le studentesse e i passanti. Una compatta da contratto a chiamata, primo stipendio, qualche anno fa, più o meno fedele senza pretese. Vorrei portare tutto a casa che ci sarà qualcosa da ricordare. Penso stamperò solo la foto, per coprimi ancora di carta e scriverci dietro universitiarea per portarmi tutto via. Ricordare quelle bellissime settimane in cui ci mancava sempre qualcosa, dal pranzo al cacciavite i tappetini nuovi, ma ci riempivamo le bocche con cuori pesantissimi di cose da raccontare appena successe.


C’è ancora spazio

E poi te ne sei andata. Sono rimasta sulla porta per sentire il trolley strisciare sul corridoio, poi le scale poi il corridoio poi. Due giorni per fare le valigie e riempire una scatola abbastanza malconcia con un sacco di inutilità a ricordarci tutta la nostra incapacità ad andare via.

Partito oltremare lontanissimo laurea mille lingue parlate milioni di ore di tirocinio e una piccolissima scatola con una foto della comunione, in cui eravate tutti bruttissimi e poi fuggivi oltralpe a cercare il non sto poi così male con un vinile graffiato stretto sotto il braccio e poi a lavorare lavorare lavorare con il tempo a mala pena per mangiare ma un’agendina delicata per scrivere ogni giorno che mi manchi tantissimo.

Ci sono due zucchine in frigo mangiatele. I soldi per l’ultima bolletta. Quella terribile busta bianca, che brucia, e in faccia a ogni anticlericalismo un po’ sboccato abbiamo pregato ogni santo prima di rimanere con occhi e bocca spalancati nel rapido giro di conti e di rinunce. A consolarci solo l’orrendo caffè del discount riempiendo il tempo dell’acqua a immaginar dolci che diventano impegni inderogabili per la prossima settimana. Tuo padre licenziato era un buon motivo per evitare la consueta presa in giro per aver comprato un caffè del genere, questa volta l’ultimo nella nostra cucina per gnomi, con poche fortune. È la caffettiera che lo fa male. Non ci guardavamo negli occhi per evitare di piangere ogni frase ben calibrata per non portare alla mente ricordi che ci avrebbero stretto fino a soffocarci era più facile ridacchiare sui difetti fisici del padrone di casa, ovviamente un ladro. Sei mesi d’affitto diventato eccessivi per pochi esami prima di un lungo viaggio per fortuna programmato prima di una catastrofe quotidiana, trasmessa direttamente da casa tua, avevi ragione a dire che senza tv si vive bene, che così parliamo di più. A nord lontanissimo, freddo a studiare un altro po’, e a bere anche, lavoretto che sembra inutile e una borsa di studio con a mala pena i bottoni. In quei posti ti pagano per far e ricerca, e non ogni tanto, magari se ci ritorno trovo un lavoro come si deve, qualcosa che mi piace sul serio,sembra assurdo no?

Spero di non rivederti più o almeno raramente perché sarai così impegnata da non leggere neanche le mie mail. E quella volta che ripassi da qui, con i capelli pettinatissimi e una borsa gigante, offrimi il caffè in un bar del centro senza badare agli spiccioli. E allora avremo ancora di che riempire le nostre scatole di latta.


Separare il tuorlo dall’albume

Quando tutto sembra finito arriva il momento dello zucchero a velo. Come se si guardasse una bimba appena nata si butta l’occhio sulla creatura, speriamo dolce, per portare una nevicata con un po’ di cautela e po’ d’orgoglio. In mezzo ad una cucina piena di impasto ovunque dalle sedie alle pareti e io con il compito difficile di togliermi di dosso avanzi vari di ingredienti fiduciosi. Crema pasticcera nei capelli,, cioccolato sulle orecchie che sentono ancora il campanello del forno come quando si torna da una seratina leggera a ventimilamilioni di bpm a volume indecifrabile. Le scaglie di mandorle ovunque seminate per ogni angolo in ogni fessura. Marmellate nelle ginocchia: ancora da decifrare. Il succo di limone sotto le unghie con i polpastrelli un po’ ammaccati traumi e conseguenze del grattugiare uno o due… Fruste stanchissime ancora poco comprensive del montaggio a neve che tanto finisce tutto sotto il loro moto. Si gioca tutto lì. Pazienza, calma, attenzione. Non si mischia niente a caso. Stessi ingredienti risultati diversi. L’impasto prevede ogni muscolo nervo energie che si possano trasmettere dai polmoni al torace dalle spalle ai polsi fino alle dita, finché non si aspetta l’effetto del lievito per svegliarsi. Ingegno maestoso per lievitare come si comanda nelle case più fredde di tutta la bassa. Eppur sale! (in tutti i sensi! Ovviamente q.b.!). e poi mi siedo, finalmente, la schiena che si lagna, mi tolgo la maglietta mentre passa sul volto un odore dolcissimo che mamma direbbe sta passando un angelo.