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Foto, Canale delle Moline

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Ti ricordi quando siamo arrivate a Bologna? E questa foto? Mi dicevi che non c’era bisogno di fotografare niente perché non siamo qui di passaggio, ma ci avremmo vissuto un bel po’. Ma a me sembrava di essere in un viaggio bellissimo di non potermi perdere niente che Bologna sarebbe stata sempre una gita di primavera. Così ho fotografato i palazzi sul canale che stanno dalla parte opposta alla piccola Venezia, e a te sembrava assurdo perché proprio in una di quelle case ci saresti andata a vivere. Sono stati anni vivaci, dove abbiamo scoperto la crudeltà della vita da fuori sede e le soddisfazioni intellettuali, giornate in cui potevamo diventare chi volevamo, perché eravamo come viaggiatrici che del posto prendevano tutto come se avessimo paura che potesse sfuggirci. Poi siamo diventate residenti. Abbiamo perso lo sguardo disincantato ed aver fotografato casa tua mi sembra così stupido adesso. Ora che le foto ci ricordano tonnellate di sogni andati a male che si scontrano con la miseria della nostra quotidianità fatta di continue provocazioni come la sveglia all’alba e i contratti di lavoro indecenti. Come l’impossibilità di sperare in giorni sereni in cui sentirsi qualcosa dentro. Come abbiamo fatto a bruciare tutto così in fretta? I palazzi in bilico con tutta quell’umidità avrei giurato che sarebbero caduti prima delle nostre lauree, o che i topi avrebbero risalito i muri e sterminato tutti quelli che abitano in questi palazzi. Te compresa che hai sempre avuto questa ossessione di vivere in centro, anzi in zona universitaria. E forse te lo saresti meritato perché gli studenti che non escono mai dalle mure mi infastidiscono proprio, loro sono la peggior specie di chi diventa residente troppo in fretta. Ancora mi chiedo che fine fanno i panni dei fili per stendere che cadono nel canale, sono sicura che nessuno è mai riuscito a recuperarli. Chissà poi perché avevo scelto il bianco e nero. Quanti coinquilini si saranno sprecati dietro quelle finestrelle e sotto quelle piantine. Migranti come noi che hanno perso la gioia della ricerca, intrappolate ormai tra le vecchie foto che ci ricattano con i ricordi e l’impossibilità di desiderare giorni come quelli del canale delle moline


Io scrivo

Io scrivo per evitare le pulizie, il lavaggio dei vetri, e il riordino della libreria

Io scrivo per avere una scusa per comprare nuovi block notes

Io scrivo perché ci sono certe cose che proprio mi sembra brutto sprecare,
che magari poi ce le dimentichiamo.

Io scrivo per conservare, archiviare, dare un posto a piccole cose che mi piacciono.

Come quella volta che avevo l’influenza e se stai male da fuori sede la cosa è più grave.
E mentre avevo già impostato la versione della precaria resistente
sei arrivato con un fiore di carta e un barattolo gigantesco di zuppa dal colore inquietante.
C’era anche un biscotto l’ho mangiato tutto e subito e ho conservato la carta stagnola nel cassetto delle mutande.

Io scrivo perché a volte vorrei andare in un bar e fare una rissa

Io scrivo perché qualche volta vorrei pomiciare gente a caso

Io scrivo perché è un po’ come la sete, sempre torna.

Io scrivo perché il mio vicino di casa stira la camicia ogni santa mattina alle 7
e solo io posso vederlo dalla mia finestra del bagno.
Sono sicura che lui se ne vergogna e che ci tiene a conservare questo segreto solo con me.

Io scrivo perché mi piacciono i tuoi occhiali neri e spessi, come centinaia di altri occhiali.

Io scrivo perché quando sono arrabbiata lavi sempre i piatti.

Io scrivo perché aggiusti i computer come se scrivessi poesie.

Io scrivo perché scrivi poesie come se salvassi il mondo.

Io scrivo per delle cose impercettibili che sembra mi salvino.
Come quando è una giornata davvero di merda, e Giulia mi lascia il caffè sul comodino, svuota la lavatrice, compra i cioccolati e non mi chiede niente. Cosi come dev’essere.

Io scrivo perché è come ballare fino alle 8 del mattino e poi andare a fare colazione con il rossetto ancora integro.

Vorrei avere qualcosa di interessante da dire, o di divertente, o dire che scrivo perché mi piace.
Ci sono delle cose che temo possano sfuggire, ci sono cose che voglio trattenere.
Io scrivo per trovare posto alla carta stagnola, al caffè sul comodino,
e alle persone con gli occhiali.
E se non riesco mi viene un certo fastidio come quando si butta via la roba da mangiare.


Non ricordo

Non ricordo i nomi delle mie colleghe del primo anno di Lettere moderne. Non ricordo se vivessero a Sassari o in uno dei milioni di paesini attorno alla città, i loro autori preferiti, i loro sogni, se al bar prendessero il caffè o il cappuccino. Se scrivessero con la penna o la matita. Comunque sia erano tutte dolcissime con una spiccata solidarietà per ogni studentessa di fronte all’esame di storia romana.

Non ricordo mio babbo quando fumava. Se lo facesse con la destra o la sinistra, la marca delle sigarette, la ricerca dell’accendino. Aveva smesso per la festa della mamma.

Non ricordo un periodo in cui non avessi impegni

Non ricordo più dove ho messo il poster delle Spice Girls.

Non ricordo quando ho iniziato ad ascoltare la radio, forse un inizio non ci è proprio stato. A volte non ricordo il momento della giornata in cui l’accendo. È diventato come lavarsi i denti, o allacciarsi le scarpe.

Non ricordo niente del catechismo, per fortuna.

Non ricordo quando ho letto il mio primo libro femminista, quando sono diventata antifascista e quante volte ho spiegato al bidello della scuola che anarchia non vuol dire caos. E che se i bambini fossero anarchici lavorerei gratis.

Non ricordo tantissime feste di capodanno.

Non ricordo se ti mangiassi le unghie, se avessi la barba o i baffi. Non ricordo la forma dei tuoi piedi, se indossassi camicie o magliette. Non ricordo se fosse amore o noia.

Non ricordo più la prima lettera scritta al computer.

Non ricordo che cosa si provasse a saltare forte nel lettone.

Non ricordo la casa ad Olbia, la mia prima casa, escluso un soffitto altissimo e il caminetto. Non ricordo la via, il quartiere, le vicine di casa a parte il fatto che fossero vecchissime. Era l’epoca pre-Giulia, quando ancora non era nata, e forse per questo motivo non ci è proprio permesso ricordare qualcosa prima del suo arrivo. Giulia è arrivata nella casa del quartiere Latte Dolce di Sassari, la sua prima casa.


Chiacchierare

È già suono in sé come suono è tutto ciò che richiama cori, canti, chiasso. Abbandoniamo gli elementi negativi quali il rimando al troppo rumore, come se il silenzio fosse un valore o un dovere, e la sua presunta futilità. La chiacchiera è atto che pretende poco ma tanto fa. Dà sollievo, mette in moto i pensieri, guarisce gli animi e condisce meravigliosamente le pause dal lavoro. Io sono contenta delle chiacchiere in ascensore, di quelle dei bimbi appena svegli, di quelle nei bus e alle fermate dei bus, di quelle della mia collega che sono davvero noiose ma pagherei per non farla smettere perché sento il suo sollievo nel riempire le aule. È una pratica narrativa, o una sorta di autoanalisi, è intrattenimento, o semplice spettegolare. Lo puoi fare con tutti, senza chiedere per forza età sesso o genere. A volte in tutte quelle parole si può perdere il senso del tempo, racchiudersi in lunghi periodi con poche pretese. È una pausa dal mondo che mondo crea. Provate a riempirvi delle sensazioni date dalle chiacchiere delle russe alla Montagnola di domenica pomeriggio, dei muratori arrabbiatissimi al bar di via Arno attaccato alla sede del quartiere, o quelle di una mamma con una figlia, o delle vecchissime vicine di casa, che sono vicine da subito dopo la guerra, che si conosco a memoria eppure continuano imperterrite a interessarsi una dell’altra per chiedere e rispondere cose che fanno solo rumore. Cose inutile ma che muovono vita. Sono sicura che ci sarà un totale abbandono dei margini di negatività attorno al chiacchierare, e si arriverà a dire che uno che chiacchiera è pieno di vita, o che contribuisce al miglioramento del pianeta. Si può piangere, o sorridere, si può bisbigliare o gesticolare: non importa, fa bene allo spirito, ed è gratis e senza limiti.


Mi ricordo

Mi ricordo la prima volta che ti ho baciato. Avevo le calze rotte e un po’ mi vergongnavo

Mi ricordo quando Elena è guarita, sei piombato in assemblea con tanta gioia e una bottiglia in mano. Sopra c’era il bollino del 30% della coop.

Mi ricordo il primo giorno che ho potuto scioperare. Niente a che vedere con il primo giorno di lavoro.

Mi ricordo l’ultimo corteo a Roma, gli scontri a San Giovanni, e il bruciore dei lacrimogeni. Per fortuna avevo mangiato bene in una spaghetteria e avevo messo le scarpe comode.

Mi ricordo quando mi hai lasciata. Non ho mangiato per un po’ anche quando mamma mi ha fatto le polpette al sugo. Ancora me ne pento.

Mi ricordo dell’Argentina anche se non ci sono mai stata. Mia nonna, mia zia e mia mamma sono eccentriche e invadenti. Bevono mate, non parlano bene l’italiano e hanno degli zigomi bellissimi.

Mi ricordo a prima stanza a Bologna, era più piccola di un ripostiglio e ci stava solo il letto. In Bolognina ci trovi tutto e a volte guardando Piazza dell’Unità mi chiedevo se avessi bisogno di Piazza Maggiore.

Mi ricordo quando ho fatto l’amore la prima volta. Ero a casa in un’amica che ha il papà vigile urbano. Solo tempo dopo ho capito cosa è realmente un orgasmo.

Mi ricordo quando è nata Giulia. Non me ne sono fatta una ragione e ho detto a tutti che era un alieno trovato in giardino. Non potevamo lasciarla sola.

Mi ricordo la prima volta che ho guidato senza patente. L’illegalità con una 2cv è più divertente.

Mi ricordo la gita scolastica dell’ultimo anno di liceo: Barcellona, l’arte, le birre, la camera d’albergo. Ho pomiciato con il più carino della scuola e ancora me ne vanto.


La finestra

Hai sbagliato dal primo giorno. Non basta l’inconfondibile accento emiliano. Non basta che da grande farai il medico, anzi il medico senza frontiere. Non basta che sorridi, che sei carina e ti vesti bene.

Hai parcheggiato la bici in malo modo e questo non è tollerabile.

Sotto la mia finestra un gruppo di anziani complotta contro ogni giovane e contro ogni immigrato. Sono il peggior stereotipo dell’anziano medio borghese di Santo Stefano e salvano solo Alam 40 enne del Bangladesh proprietario della bottega attaccata al mio portone, servizievole e gentile che salva il culo a tutti quando manca la camomilla, il latte o la pastina per la minestra. Alcuni di questi vecchi vivono nel mio palazzo, votavano Dc ora Lega vogliono più polizia e più lampioni e hanno una strana apprensione quasi ossessiva per le biciclette.

Posizionati tra l’incrocio con via Dagnini, la pasticceria e l’edicola che vende solo Il Resto del Carlino, osservano agguerriti ogni bici, ogni ciclista, ogni parcheggio fantasioso dettato dalla totale assenza di rastrelliere. Godono proprio tanto quando leghi la bici alla ringhiera sbagliata e tremano di fronte al bivio: chiamare la municipale o fare una bella ramanzina?

Tu eri il nostro punto forte, per noi quattro giovani in un palazzo che sta per morire. Niko è un immigrato artista, Antonio è un calabrese con i capelli lunghi e forse per i vecchi è peggio che essere straniero, io straniera lo sono in parte e ho i capelli troppo corti. Tu con tutte le R di Parma dovevi sfondare e assicurarci una vita gioiosa fra i vecchi di Santo Stefano, che a loro interessa solo da dove vieni e da quanto tempo abiti in zona. Certo tu sei giovane ma con qualche aneddoto sulle vacanze a Rimini e le parrocchie della provincia ce la saremo cavata. E invece no, quella bici lasciata un po’ storta tra il marciapiede e la strada ha dato via all’odio profondo che i vecchi provano per i giovani. Loro al fatto che io mi alzo alle 6 per andare a lavorare non ci credono, che sono laureata con il massimo dei voti ancora meno. Noi dormiamo tutto il giorno e quando usciamo facciamo paura, distruggiamo gli alberi del quartiere legando le bici, che si sa sono pericolose. Secondo me a Bologna se non hai una bici sei un po’ sfigato e se ce l’hai e non la usi forse sei pure stronzo. Per me se abiti a S.Lazzaro e lavori a Casalecchio ci devi comunque andare in bici. Bisognerebbe dare 1,30 euro a tutti quelli che pedalano tanto, abolire le auto in modo che nella mia via gli alberi non sembrino di plastica e i camion non ci tormentino più. Forse senza tutto quel trambusto i vecchi smetterebbero di trattarci male, toglierebbero dalle loro cantine le loro bici e sfreccerebbero per il Lunetta Gamberini fino al Savena e magari si ricorderanno che a liberare Bologna c’erano anche gli immigrati, immigrati giovani polacchi, probabilmente in bici.