Carta

Dio se ci credevamo. Mai stanche mai sazi mai affaticate. Di casa si usciva poco che non avevamo mai il tempo di rientrarci per scrivere a dieci mani dieci poesie o di mail di pancia, di ante crisi e sintesi di piccoli incontri speranzosi, un po’ festosi un po’ insanguinati. E le dita pasticciate e gli occhi spremuti dallo schermo. Sepolte dalla carta. Quella rubata da rivedere da mangiare da appuntare conservare a ogni costo. Sono tornato da parigi con 15 kg di carta e per te ci sono dei bellissimi adesivi. Autogestion oui elections non. Uno per me uno per ricordo uno per l’archivio/i. E poi studiare in continuazione centro delle giornate fra caffè terrificanti e rincorse ad esami, accademici singhiozzi e incontri rigidi cercando consigli per uscire con un po’ di dignità. Documenti, serie, fascicoli, faldoni, librerie, centro di documentazione, fotografie, volantini, trascrizioni, articoli, riviste, lettere. Attorno ad altra carte da sapere meglio del solito, o almeno ci si augura, si ricompongono giornate mai abbastanza ragionate che chiedono pietà urlando il nome della via di casa.. Cene che non vedono fornelli e coinquiline da tanto ormai non se ne contano più, meglio riusciti lunghi aperitivi low cost made in bangladesh con nessun grado e chiacchiere affettuose. C’è chi le nottate se le organizza ben benino incastrando incontri amicizie dibattiti e sbronze e chi arrivando in ritardo ti convince ad andare da tutt’altra parte ritrovandoti a sfogliar l’agenda sul notturno. Notturno meraviglioso se si ritorna dal festival punkoiska più riot-trendy del nord. Sembrava mezzogiorno in zona universitaria. Quella manciata di turisti a chiedere “univerisitiarea?” e sorridere farfugliando un itshiar e sentire ancora una volta la sensazione di quando avevamo capito che nasceva un amore travagliato, da grandi, emozionante come le notti passate a casa da sola senza aver paura ( o almeno senza dover per forza raccontarla) o la prima spesa alla coop senza farsi fottere sul resto o sulle offerte. Amore di grandezza denso un impasto in cui sprofondare piano piano. Fingersi una cilena in vacanza o in erasmus, parlare poco e fare foto. La reflex la usano pochi la sfoggiano in troppi. Io troppo povera per entrambe. Le biciclette i ragazzi strani in una strana città italiana e quella rete dei lavori in corso sepolta da milioni di foglietti diventati illeggibili per l’affollamento. Ci puoi trovare qualsiasi cosa quanti sono le studentesse e i passanti. Una compatta da contratto a chiamata, primo stipendio, qualche anno fa, più o meno fedele senza pretese. Vorrei portare tutto a casa che ci sarà qualcosa da ricordare. Penso stamperò solo la foto, per coprimi ancora di carta e scriverci dietro universitiarea per portarmi tutto via. Ricordare quelle bellissime settimane in cui ci mancava sempre qualcosa, dal pranzo al cacciavite i tappetini nuovi, ma ci riempivamo le bocche con cuori pesantissimi di cose da raccontare appena successe.


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