Il padrone di casa ha anticipato la visita mattutina per ricordarci che questa non è casa nostra. E noi dovevamo ancora rientrare dalla sera prima. Buongiorno con un alito di/vino appena arrivati il tempo di togliere il giubbotto e di aprirgli la porta. Meno male che i mezzi funzionano che siamo in una città del nord come diceva una signora alla stazione. Meno male che qui i padroni non mancano mai, sai quando hai voglia di sfogarti di tutti i dolori del mondo hai sempre qualcuno a cui farla pagare per tutte. Il frigo sempre vuoto la dispensa vagamente occupata. Anche se avessi la coop vicino non ci andrei molto spesso. Se avessi la fermata del bus qui sotto mi piacerebbe comunque passeggiare. E tutti quei negozi in centro cosa vogliono da me che il gas si paga anche d’estate anche se abbiamo mangiato solo freddo e umidità questo dannato inverno. E adesso che arriva il sole nessuno crede alla neve. Tutti tranne l’hera. C’è il condominio da pagare ricordatevi che l’affitto scade il venti e non appendete tutte queste cose ai muri, prima o poi vi crolleranno addosso. Resistere resistere resistere ricordare, non ne ho più molta voglia. Stanca. Vorrei aver anche io la mia liberazione da festeggiare. Affitto stanza fuori centro, lontana da qualsiasi cosa. Cara come non l’avresti mai immaginata.
Centrotavola
Con tutta la pianura padana da prendere a martellate. Correvamo forte. Ti fermi sul ciglio della strada e per fortuna non cadiamo. Scendi a prenderti uno di quei bei fiorellini gialli, dai che te lo regalo. Avevo il fango fino alle ginocchia per farmi fare un regalino. Per un bel centrotavola, più fiori che cibo, più tenerezza che fame. Non mi ricordo dove andavamo, parlavamo sempre, o meglio io ti ascoltavo, tu a fatica cerchi di interpretarmi, per non stancarti a capire. Come hai fatto a starmi così lontana in un letto così piccolo? Sono solo stanca. I casolari infiniti per fuggire dentro a piangere in silenzio, per dirti poi che non c’è niente, per sentirti poi raccontare tutte le volte in cui hai pianto tu. Abbiamo un bel centrotavola.
Periferia
Chi vive in pianura padana vive tre anni. Noi due sempre a perder tempo. Tutto tempo perso senza vederci. Chissà quanto anni abbiamo buttato. Ci rimane solo qualche risveglio, tutto venduto alla speranza di vivere, di darci un senso, di salare un po’ la solita minestra. Al di là delle pedonalizzazioni del centro i suoi santi caduti dal cielo per le bestemmie poco comprese per le tue ansie poco visibili. E mi svegli la notte tirandomi i piedi come gli spiriti. Ogni tanto dimentico che siamo atei. Che non riesci a dormire per cose che devono succedere. E poco ti preoccupi delle cose già successe come il mio lavoro di merda che se non la smetto di contagio la stanchezza. Ma dormiamo poco e male ma ogni tanto senza esagerare. Con le scarpe allacciate la luce accesa con le mie braccia pesantissime su di te . E quei strani dolori che mi vengono ogni tanto. Tutti su di te. Sdraiati straziati addormentati. Una casa piccolissima. Non potevi immaginare delle stanze così indecenti e degli affitti così crudeli. Peggio dei padroni. Il cellulare squillava le mie eterne amiche reclamavano sabati sera fra noi da non regalare alle parole scritte, lette, ascoltate dibattute. I fari delle macchine velocissimi su di noi ci accarezzavano senza esser invadenti. E non abitavamo neanche sui viali. Ogni domenica vorrei svegliarmi in questa strada. E magari chissà altro. La spesa le colazioni i parcheggi. I tossici la piazza i cinesi fortissimi a pallacanestro ma mai quanto i lituani. Le mamme con il velo i bimbi che parlano qualsiasi lingua. A casa non ci sto mai. Quando torno mi sembra di esser stata via per anni. Sarebbe più semplice se mi mancassi solo tu.
Quante ancora?
Pubblico qui un articolo scritto per Nueter e poi pubblicato da Umanita Nova
Ormai sono più di cento. Tutte donne. Tutte ammazzate. Gli assassini, uomini. Uccise perché donne. Gli uomini che stuprano, molestano, ammazzano sono di ogni colore, razza, religione, etnia, ceto sociale, classe. La violenza sulle donne non bada ai documenti né al reddito. In Italia le donne vengono uccise perché tali. Ricche, povere, disoccupate, immigrate, brutte, modelle, madri, sorelle, bambine. Questo tipo di morti femminili sono in media più di un centinaio1 all’anno e analizzando la situazione italiana in quanto a rapporti fra sessi non possiamo vedere gli omicidi come singoli casi. I modelli di genere tradizionali sono ben radicati nella mentalità collettiva e vengono riproposti costantemente nella pubblicità, nel privato, nei prodotti culturali, nella politica. Le donne son ancora rappresentate spesso come deboli, prede, passive, indifese, fragili, mentre l’uomo è forte e predatore. Le imposizioni di ruoli sono presenti soprattutto nell’ambito domestico e coniugale e non è un caso infatti che la maggior parte delle donne vengano uccise nel “privato”: il 70% degli omicidi si consuma a casa. Al di là dell’immagine di madre devota e della serva della casa le donne sono usate spesso come cestino di frustrazioni, malumori, deposito non solo di compiti fisici ma anche morali nell’ascoltare e farsi carico di problemi altrui. Angelo del focolare, della morale, dei sentimenti, dei bisogni. Quando da queste situazioni di denigrazioni, controllo e privazione si cerca di uscire iniziano le persecuzioni, lo stalking, la violenza. Sicuramente queste poche righe non soddisfano un’analisi completa sui femminicidi, ma è necessario tenere a mente il contesto culturale in cui muoiono le donne per mano maschile, senza che ciò diventi una giustificazione, ma un elemento da tenere in considerazione per capire meglio tali omicidi. Molto spesso gli assassini hanno già denunce per stalking. Ciò dimostra come burocrazia, polizia, carceri, magistrati ecc.. non garantiscono una reale sicurezza. A dirla tutta da quando è nato il reato di stalking sono aumentati i delitti contro le donne e spesso dentro questo reato vanno a confluire molestie più gravi come il tentativo di omicidio, lo stupro, l’aggressione, la violazione di domicilio privato, il sequestro di persona, il rapimento di minore e varie altre cose2. Probabilmente le donne sono più utili al pacchetto sicurezza che non il contrario. L’immagine della donzella in difficoltà, della fanciulla che corre via dal bruto e della fragilità femminile sono utili per creare nuovi mostri: infatti nel nostro bel paese sessismo e razzismo sono una coppia agguerrita. Complice di tutto ciò la politica xenofoba somministrata ben bene dalla stampa. Per ogni morte in cui è coinvolto anche solo marginalmente uno straniero, o si ha il vago dubbio della colpevolezza, i telegiornali impazziscono con servizi costruiti specificamente per creare il mito dell’extracomunitario che oltre a rubare il lavoro stupra “le nostre donne”. Perché quando ci si preoccupa di una violenza lo si fa strumentalmente a fini xenofobi e in senso paternalistico: le donne italiane non possono essere prese da qualcun altro, bisogna proteggerle, uno straniero le “nostre donne” non le tocca. Anche per gli omicidi che avvengono in ambienti familiari, ma di altre culture, non si risparmiano i dettagli parlandone per più giorni possibile, come se il maschilismo fosse una pratica barbara di culture altre, mondi incivili. Si dimentica che le donne in Italia vengono uccise per lo più da italiani (il 76%). Ma il ruolo della stampa non si limita al semplice razzismo. Di donne uccise se ne parla sempre poco e male nonostante la gravità dei numeri, gravità maggiore se si pensa a tutte quelle donne, che riuscendo a restar vive, non denunciano la violenza e sono la maggior parte. Quando si arriva al peggio si dedica sempre molto tempo a parlare dell’assassino e quando è italiano si cerca di analizzarlo, giustificarlo quasi comprenderlo. Ha perso il lavoro, era frustrato, aveva problemi. Oppure si parla di passione, di gelosia. Si usano termini come “raptus” e “follia omicida” come se solo chi ha seri problemi psichiatrici uccidesse le donne. Ma negli ultimi 5 anni meno del 10% degli assassini soffriva di patologie psichiatriche. In più si parla spesso di depressione e si alimenta un altro falso stereotipo per cui il depresso può diventare un folle omicida, dimenticando che sono proprio molte donne a soffrire di questo disturbo e non per questo fanno stragi di mariti. Negli articoli e servizi che riguardano le donne ammazzate, quando si dedica qualche frase alle vittime, se si trova qualcosa di non consono alla morale comune come un amante o relazioni extra coniugali, non ci si limita nei dettagli; oppure si racconta del rapporto con l’omicida quasi a cercare una qualche causa o una colpa. Inoltre la “gelosia” è frequentemente presentata come causa delle morti. Qui sta un doppio gioco di giustificazione dell’assassino e di controllo femminile, insomma dando la colpa alla gelosia si sta quasi ad indicare alle donne di “far da brave”, di non avere comportamenti che possano far scatenare le ire del partner, come se le donne certe morti orribile se le cercano. La violenza sulle donne è visto come male oscuro, raro, relegato ai malati di mente, agli stranieri incivili, a chi ha problemi, a situazioni particolari, falsificando dati e insabbiando la trasversalità di tali omicidi. Polizia, magistratura, oscene campagne contro lo stalking non sono sicuramente dalla parte delle donne. Lo stato patriarcale vive sulle discriminazioni di genere e sullo sfruttamento delle donne. Per non parlare poi delle immagini femminili propugnate dall’attuale governo che inoltre, visti i tagli, costringe i centri antiviolenza a chiudere. Non è impresa facile l’analisi dei femminicidi e del retroscena culturale in cui si compiono tali delitti ma non si può esser indifferenti al maschilismo che accompagna la vita di tantissime. Comunicare fra donne, riconoscere le stesse sofferenze di cui moltissime sono vittime e non vedersi più come passive, impotenti o sole aiuta nella costruzione di una rete solidale fra donne che è più potente di ogni forma di brutalità maschile.
Debs
1. La Casa delle Donne ha svolto un’indagine sul femmicidio in Italia nel 2010 (tutti i dati citati sono presi da tale indagine).↵
2. www.femminismo-a-sud.noblogs.org e www.bollettinodiguerra.noblogs.org sono due siti che si occupano di donne e femminismo e in particolar modo il secondo di femminicidi.↵
Inferno? Cie di via Mattei, Bologna.
Pubblico qui un articolo scritto per Nueter
La lotte delle migranti è la lotta di tutte/i
Chi parla di sicurezza ormai troppo spesso parla anche di clandestini e immigrazione. Una delle immagini più usate è quello dello stupratore quasi sempre straniero e della donna bianca, la donna degli italiani, da difendere. Si mescolano così stereotipi sessisti e razzisti. Una delle conseguenze istituzionalizzate della xenofobia sono i Cie, lager per stranieri. Ovviamente in questi inferni non sono rinchiusi solo uomini dipinti come mostri ma ci sono anche tantissime donne. Queste donne però non sono da proteggere o difendere. Non sono le donne bianche, le italiane, le donne da sorvegliare. Le donne rinchiuse nei Cie sono trattate come delle criminali che subiscono, anch’esse, i deliri xenofobi usati per “questioni di sicurezza”. Ingabbiate. Di fronte agli occhi maschili delle guardie sono animali da rinchiudere o oggetti sessuali nella peggior ottica colonialista. Stupri, molestie, ricatti sessuali, pestaggi, offese e umiliazioni. Cibo scarso e con sedativi, condizioni igieniche inesistenti. Ma l’altra sera a Bologna le donne del Cie hanno detto no e le urla disperate per una volta sono giunte anche a noi. Il 24 agosto volano sedie e si incendiano materassi: si protesta perché quei lager sono invivibili. “Non siamo drogate né assassine, siamo qui solo per una questione di documenti. Qui dentro siamo troppe, fa molto caldo, ma noi non siamo animali. Per favore venite a vedere com’è la situazione qui, aiutateci” dice un delle donne rinchiuse. La risposta della polizia non si fa attendere riempiendo di lividi chi aveva alzato la testa e arrestando una di loro. I Cie ai margini delle città sono elemento chiave di politiche sessiste, razziste e repressive che vediamo quotidianamente. La lotta contro i lager non può essere separata dalle altre. Le violenze che subiscono le donne nei Cie riguardano tutte le donne ancor di più se si pensa che anche le donne italiane vengono usate in un’ottica paternalistica e razzista per legittimare i Cie. Sessismo e razzismo: ecco i veri mostri da cancellare.
Verdura
Una verdura buonissima. La porta sempre un vecchio compagno al nostro circolo. Ex brigatista mai stato cattolico, ora, di idee libertarie. O anarchici o buddisti. Parlava di cene meravigliose con un accento reggiano con pesanti influenze torinesi, un po’ informali. La severa critica ad un passato visto da lontanissimo e con grandissimo rispetto. Un po’ come la muraglia cinese. Accuse pesanti, fascino irresistibile che traspare solo in qualche battuta ironica concessa dopo quattro assemblee consecutive.
Autostrade fredde nei peggior lugli cinici come mai ci saremo aspettati. I cinesi poi sono strani, con l’estetismo forse me la cavo meglio. I rivoluzionari secchioni, pensavamo, si sposano benissimo con autogrill visitati poco, pochissimo, pensavamo, soli.
In attesa di nostalgici dadaismi con isterismi per mancanza di disarmi. Rotoliamo per non farci male, tra cose complicate che pretendiamo di capire, come una morte di libertà, come le urla dietro le sbarre. E non sappiamo niente nella nostra innocenza soffice come una culla, in bilico tra inferno e realtà. E non riesco a capire dove potrei essere meno stanca. Parli parli parli a insegnare giudicare criticare. Analizzare. Forse per noia. Come se fossi estraniato lontano da tutto. La voce diventa stridula, sei semplicemente qui vicino a me, non chissà dove, e puoi avere tutte le insicurezze che vuoi. Anche le mie.
Vicino alle pasticcerie
Immaginavo di stringerti forte come fanno i ragazzini fuori dalle scuole ogni tanto, anche con 40 gradi, senza vergogna per esser grandi, si baciano e chissà altro, per l’età. Se trovo quello che ha raccontato questa stronzata d’essere grandi. Grandi per capire per avere più problemi anche quelli che non sono tuoi. Uno straccio. Pregna di altro che non sono io. Problemi tuoi. Perché sei santa puttana madre domestica: dare un servizio. Non capisco. Ogni volta dico di si. Volevo essere via anche se era per farti soffrire. non esserci. Tremavi ti consolavo mi lasciavi la mano appena tutto era passato. Svanivi come i profumi dei dolci, rapido e agonizzante. Come le madri con i figli come ciondolare leggera su fiducie mai problematizzate e poi cadere. Come nei sogni, come quando ti svegli. Hai i miei capelli lunghissimi fra i denti come i nostri menti che si incastrano sulle spalle che è un buon motivo per alzarci tardissimo e inventare scuse per i nostri appuntamenti andati a male.
Quando capita
Non ha mai risolto i tuoi problemi con l’ordine, dici che ti adegui ad ogni variante di disordine, e tutto sommato resisti dignitosamente ad ogni cambio di tendenza. Ti lamenti sempre per il caffè, per le sigarette, per il tempo in cui non hai potuto guardarmi un po’ più da vicino. Gli affitti erano scoperti e i tubi ci piovevano sui tetti. I muratori erano tutti bolognesi e un po’ ti preoccupavi. Un sacco di polvere e litigavamo per vederci cinque minuti per riappacificarci in tre. Appena il tempo non sempre scontato per chiedermi come va. Toccarci non era all’ordine del giorno. Come la disoccupazione in Grecia o un revisionismo a caso. Sentivamo il caldo arrivare e non ci spostavamo pensando che il tempo si sarebbe scansato incontrandoci. Perdi i tuoi occhi in scollature consuete, mi baci i capelli, ti regalo poesie.
Discriminazioni e lavoro domestico: sfruttate due volte, doppia rabbia
Pubblico qui un mio articolo sul lavoro femminile uscito su “Nueter, foglio di agitazione anarchica di Bologna e provincia” e su Umanità Nova
“La parità di retribuzione e’ un nostro diritto, ma la nostra oppressione e’ un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico? “ Rivolta Femminile, 1970.
Primo maggio, festa dei lavoratori, ma molte lavoratrici non conoscono feste o ferie. Le donne che ancora hanno il fardello del lavoro domestico non ricevono nessuna adeguata attenzione. Il lavoro di cura non è un retaggio del passato ma insieme alla particolarità di tutto l’ambito lavorativo femminile richiede un adeguata analisi che rivela discriminazioni taciute.
Negli ultimi anni le gravi divaricazioni salariali tra donne e uomini – secondo i dati Istat del 2008 all’incirca del 21% – persistono senza miglioramenti, accompagnate da un generale scoraggiamento che porta una donna su due a non avere un’occupazione e neppure a cercarla ( Istat, 2009).
La lettura dei dati si fa ancor più drammatica quando si tratta di donne sposate e con figli: in un periodo di crisi in cui il precariato è la normalità, la scelta della maternità risulta quasi inconciliabile con un’occupazione senza sicurezze. Spesso uno dei motivi principali per cui le donne lasciano il lavoro, o sono licenziate, sono i figli. I nuovi contratti a scadenza mensile non hanno nessuna attenzione per la maternità. Inoltre la famiglia o la possibilità di averla vengono sempre visti come una minaccia per la produzione.
Nonostante le difficoltà nel conciliare vita familiare e lavorativa molte donne continuano a lavorare doppiamente sopportando doppia fatica, doppio stress, doppie ripercussioni sulla salute ma senza aver in cambio alcun riconoscimento o aiuto. Più della metà delle donne ha ancora il carico del lavoro domestico anche se ha un impiego: il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne ( Istat, 2009). Oltre alle classiche ‘faccende domestiche’ che lasciano poco tempo libero e occupano tante ore giornaliere e notturne, non va dimenticato che l’assistenza ai malati e agli anziani è affidata alle donne della famiglia. Continuare a parlare di lavoro domestico è ancora oggi importante e utile per spezzare il silenzio delle prigioni familiari.
Il doppio sfruttamento femminile ha alla base secolari pregiudizi che vedono la donna come predisposta principalmente alla cura e alla riproduzione, un lavoro che si pensa non faticoso ma che dia soddisfazione. Non sono quindi ancora morti quei luoghi comuni che vogliono le donne madri, crocerossine, instancabili, accondiscendenti e possibilmente sorridenti. Tutti modelli ancora presenti nell’educazione delle bambine, nelle pubblicità e nei prodotti culturali.
Oltre alle diseguaglianze di tipo materiale bisogna ricordare le molestie sessuali e psicologiche (come per esempio telefonate oscene, pedinamenti e in alcuni casi vere e proprio aggressioni) a cui sono sottoposte le lavoratrici. Secondo i dati Istat nel 2010 sono state 842 mila le donne a subire trattamenti di questo tipo. A tali violenze è difficile ribellarsi, sotto il pressante ricatto della perdita del lavoro. In più nel periodo di crisi nei luoghi di lavoro il clima diventa più oppressivo e ricattatorio, così come i tagli ai servizi sociali giustificati dalla crisi si traducono in un aumento del lavoro di cura. Le violenze inoltre si riscontrano soprattutto nell’ambito domestico in cui le donne della famiglia oltre a lavorare senza limiti sono minacciate dagli abusi da parte degli uomini quasi sempre parenti o conoscenti della vittima.
La salute delle donne è minacciata anche dalla generale insicurezza dei luoghi di lavoro, sempre più luoghi di morte. Ultimo drammatico episodio è quello che riguarda una lavoratrice della provincia di Lecco, rimasta uccisa da un macchinario del salumificio Beretta. Le morti bianche occupano sempre meno spazio sui giornali e mai si tratta degli incidenti che riguardano le lavoratrici, nonostante secondo l’Inail sono circa un terzo le vittime femminili del lavoro. Tale dato deve essere letto in considerazione alla maggior disoccupazione femminile rispetto a quella maschile, non esiste di certo una particolare attenzione al lavoro delle donne. Negli infortuni in itinere, invece, la quota rappresentata
dalle lavoratrici, è rilevante e pari precisamente al 46,1%. Questo dato è da leggere insieme a tutto quello stress accumulato dalle donne durante il lavoro domestico. Tantissime lavoratrici prima di uscire per recarsi sul posto di lavoro hanno speso ore e fatica in pulizie, cucina, cura dei figli o del marito, e altri compiti legati alla famiglia. Rispetto ad un lavoratore una donna si riposa anche meno non trovando nella casa un luogo di pace in cui sfruttamento e fatica terminano. Inoltre è doveroso porre l’attenzione su quei danni alla salute di cui ancor meno si parla, come la depressione, creati spesso da un doppio lavoro scontato e invisibile.
Riforme o goffi aiuti statali non aiutano di certo la posizione delle donne in ambito lavorativo e familiare. Anzi, spesso attenuano la rabbia e rafforzano i modelli maschilisti. È necessaria una rivalutazione costante dei rapporti fra generi che parta in primo luogo dalle donne che da sempre subiscono un’oppressione che, pur essendo nei secoli cambiata nelle modalità del suo manifestarsi, non accenna ad estinguersi. Perciò si ripresenta come assolutamente necessaria una riflessione delle donne, sulle donne, che non termini con la semplice negazione di un modello patriarcale, ma che apra invece la strada ad una lotta che combatta contro ogni sfruttamento.
Solo le donne insieme possono dar vita a una rivolta che non le veda più schiave e sfruttate, inserite in una società che per emancipazione intende lo scimmiottamento di ruoli maschili. Riconoscersi e confrontarsi fra donne è importante per smantellare un sistema che preferisce ancora le donne a casa e per costruire un momento collettivo che dimostri la sua forza in ogni singola reazione contro le discriminazioni di genere.
Deborah
Ho visto un carabiniere ballare
Ho visto un carabiniere ballare. Senza volerlo, era una bella serata con quel jazzista che sembrava uscito da un fumetto. Quando pensi al jazz pensi ad una faccia così. E lui ballava e sembrava quasi umano, pensai che si sarebbe spogliato o sparato. L’erba ci voleva bene, la barista un po’ meno. Eravamo di/vini. Mi raccontavi come stavamo bene, volevamo dirlo a chiunque ma non riuscivamo ad alzarci. E se poi non riusciamo a tornare indietro? Ma che c’è dietro? Il jazz si fa così:
tiruttiruparaparattiturutiruttttuuuuriiituriti.
Mezzanotti che durano una settimana soffici come cotone. Le note che pesano nell’aria, mi giravo a cercare chissà cosa, incuriosita con troppa ingordigia. Ciondalare leggeri con luci ingannevoli tra un sax e un pianoforte. Non avevo più freddo e chiedendomi la strada per rientrare a casa allungavo il tragitto.