Affittasi stanza ampia e luminosa

Il padrone di casa ha anticipato la visita mattutina per ricordarci che questa non è casa nostra. E noi dovevamo ancora rientrare dalla sera prima. Buongiorno con un alito di/vino appena arrivati il tempo di togliere il giubbotto e di aprirgli la porta. Meno male che i mezzi funzionano che siamo in una città del nord come diceva una signora alla stazione. Meno male che qui i padroni non mancano mai, sai quando hai voglia di sfogarti di tutti i dolori del mondo hai sempre qualcuno a cui farla pagare per tutte. Il frigo sempre vuoto la dispensa vagamente occupata. Anche se avessi la coop vicino non ci andrei molto spesso. Se avessi la fermata del bus qui sotto mi piacerebbe comunque passeggiare. E tutti quei negozi in centro cosa vogliono da me che il gas si paga anche d’estate anche se abbiamo mangiato solo freddo e umidità questo dannato inverno. E adesso che arriva il sole nessuno crede alla neve. Tutti tranne l’hera. C’è il condominio da pagare ricordatevi che l’affitto scade il venti e non appendete tutte queste cose ai muri, prima o poi vi crolleranno addosso. Resistere resistere resistere ricordare, non ne ho più molta voglia. Stanca. Vorrei aver anche io la mia liberazione da festeggiare. Affitto stanza fuori centro, lontana da qualsiasi cosa. Cara come non l’avresti mai immaginata.


Centrotavola

Con tutta la pianura padana da prendere a martellate. Correvamo forte. Ti fermi sul ciglio della strada e per fortuna non cadiamo. Scendi a prenderti uno di quei bei fiorellini gialli, dai che te lo regalo. Avevo il fango fino alle ginocchia per farmi fare un regalino. Per un bel centrotavola, più fiori che cibo, più tenerezza che fame. Non mi ricordo dove andavamo, parlavamo sempre, o meglio io ti ascoltavo, tu a fatica cerchi di interpretarmi, per non stancarti a capire. Come hai fatto a starmi così lontana in un letto così piccolo? Sono solo stanca. I casolari infiniti per fuggire dentro a piangere in silenzio, per dirti poi che non c’è niente, per sentirti poi raccontare tutte le volte in cui hai pianto tu. Abbiamo un bel centrotavola.


Periferia

Chi vive in pianura padana vive tre anni. Noi due sempre a perder tempo. Tutto tempo perso senza vederci. Chissà quanto anni abbiamo buttato. Ci rimane solo qualche risveglio, tutto venduto alla speranza di vivere, di darci un senso, di salare un po’ la solita minestra. Al di là delle pedonalizzazioni del centro i suoi santi caduti dal cielo per le bestemmie poco comprese per le tue ansie poco visibili. E mi svegli la notte tirandomi i piedi come gli spiriti. Ogni tanto dimentico che siamo atei. Che non riesci a dormire per cose che devono succedere. E poco ti preoccupi delle cose già successe come il mio lavoro di merda che se non la smetto di contagio la stanchezza. Ma dormiamo poco e male ma ogni tanto senza esagerare. Con le scarpe allacciate la luce accesa con le mie braccia pesantissime su di te . E quei strani dolori che mi vengono ogni tanto. Tutti su di te. Sdraiati straziati addormentati. Una casa piccolissima. Non potevi immaginare delle stanze così indecenti e degli affitti così crudeli. Peggio dei padroni. Il cellulare squillava le mie eterne amiche reclamavano sabati sera fra noi da non regalare alle parole scritte, lette, ascoltate dibattute. I fari delle macchine velocissimi su di noi ci accarezzavano senza esser invadenti. E non abitavamo neanche sui viali. Ogni domenica vorrei svegliarmi in questa strada. E magari chissà altro. La spesa le colazioni i parcheggi. I tossici la piazza i cinesi fortissimi a pallacanestro ma mai quanto i lituani. Le mamme con il velo i bimbi che parlano qualsiasi lingua. A casa non ci sto mai. Quando torno mi sembra di esser stata via per anni. Sarebbe più semplice se mi mancassi solo tu.

 

 

 

 

 


Quante ancora?

Pubblico qui un articolo scritto per Nueter e poi pubblicato da Umanita Nova

Ormai sono più di cento. Tutte donne. Tutte ammaz­zate. Gli assas­sini, uomini. Uccise per­ché donne. Gli uomini che stu­prano, mole­stano, ammaz­zano sono di ogni colore, razza, reli­gione, etnia, ceto sociale, classe. La vio­lenza sulle donne non bada ai docu­menti né al red­dito. In Ita­lia le donne ven­gono uccise per­ché tali. Ric­che, povere, disoc­cu­pate, immi­grate, brutte, modelle, madri, sorelle, bam­bine. Que­sto tipo di morti fem­mi­nili sono in media più di un cen­ti­naio1 all’anno e ana­liz­zando la situa­zione ita­liana in quanto a rap­porti fra sessi non pos­siamo vedere gli omi­cidi come sin­goli casi. I modelli di genere tra­di­zio­nali sono ben radi­cati nella men­ta­lità col­let­tiva e ven­gono ripro­po­sti costan­te­mente nella pub­bli­cità, nel pri­vato, nei pro­dotti cul­tu­rali, nella poli­tica. Le donne son ancora rap­pre­sen­tate spesso come deboli, prede, pas­sive, indi­fese, fra­gili, men­tre l’uomo è forte e pre­da­tore. Le impo­si­zioni di ruoli sono pre­senti soprat­tutto nell’ambito dome­stico e coniu­gale e non è un caso infatti che la mag­gior parte delle donne ven­gano uccise nel “pri­vato”: il 70% degli omi­cidi si con­suma a casa. Al di là dell’immagine di madre devota e della serva della casa le donne sono usate spesso come cestino di fru­stra­zioni, malu­mori, depo­sito non solo di com­piti fisici ma anche morali nell’ascoltare e farsi carico di pro­blemi altrui. Angelo del foco­lare, della morale, dei sen­ti­menti, dei biso­gni. Quando da que­ste situa­zioni di deni­gra­zioni, con­trollo e pri­va­zione si cerca di uscire ini­ziano le per­se­cu­zioni, lo stal­king, la vio­lenza. Sicu­ra­mente que­ste poche righe non sod­di­sfano un’analisi com­pleta sui fem­mi­ni­cidi, ma è neces­sa­rio tenere a mente il con­te­sto cul­tu­rale in cui muo­iono le donne per mano maschile, senza che ciò diventi una giu­sti­fi­ca­zione, ma un ele­mento da tenere in con­si­de­ra­zione per capire meglio tali omi­cidi. Molto spesso gli assas­sini hanno già denunce per stal­king. Ciò dimo­stra come buro­cra­zia, poli­zia, car­ceri, magi­strati ecc.. non garan­ti­scono una reale sicu­rezza. A dirla tutta da quando è nato il reato di stal­king sono aumen­tati i delitti con­tro le donne e spesso den­tro que­sto reato vanno a con­fluire mole­stie più gravi come il ten­ta­tivo di omi­ci­dio, lo stu­pro, l’aggressione, la vio­la­zione di domi­ci­lio pri­vato, il seque­stro di per­sona, il rapi­mento di minore e varie altre cose2. Pro­ba­bil­mente le donne sono più utili al pac­chetto sicu­rezza che non il con­tra­rio. L’immagine della don­zella in dif­fi­coltà, della fan­ciulla che corre via dal bruto e della fra­gi­lità fem­mi­nile sono utili per creare nuovi mostri: infatti nel nostro bel paese ses­si­smo e raz­zi­smo sono una cop­pia agguer­rita. Com­plice di tutto ciò la poli­tica xeno­foba som­mi­ni­strata ben bene dalla stampa. Per ogni morte in cui è coin­volto anche solo mar­gi­nal­mente uno stra­niero, o si ha il vago dub­bio della col­pe­vo­lezza, i tele­gior­nali impaz­zi­scono con ser­vizi costruiti spe­ci­fi­ca­mente per creare il mito dell’extracomunitario che oltre a rubare il lavoro stu­pra “le nostre donne”. Per­ché quando ci si pre­oc­cupa di una vio­lenza lo si fa stru­men­tal­mente a fini xeno­fobi e in senso pater­na­li­stico: le donne ita­liane non pos­sono essere prese da qual­cun altro, biso­gna pro­teg­gerle, uno stra­niero le “nostre donne” non le tocca. Anche per gli omi­cidi che avven­gono in ambienti fami­liari, ma di altre cul­ture, non si rispar­miano i det­ta­gli par­lan­done per più giorni pos­si­bile, come se il maschi­li­smo fosse una pra­tica bar­bara di cul­ture altre, mondi inci­vili. Si dimen­tica che le donne in Ita­lia ven­gono uccise per lo più da ita­liani (il 76%). Ma il ruolo della stampa non si limita al sem­plice raz­zi­smo. Di donne uccise se ne parla sem­pre poco e male nono­stante la gra­vità dei numeri, gra­vità mag­giore se si pensa a tutte quelle donne, che riu­scendo a restar vive, non denun­ciano la vio­lenza e sono la mag­gior parte. Quando si arriva al peg­gio si dedica sem­pre molto tempo a par­lare dell’assassino e quando è ita­liano si cerca di ana­liz­zarlo, giu­sti­fi­carlo quasi com­pren­derlo. Ha perso il lavoro, era fru­strato, aveva pro­blemi. Oppure si parla di pas­sione, di gelo­sia. Si usano ter­mini come “rap­tus” e “fol­lia omi­cida” come se solo chi ha seri pro­blemi psi­chia­trici ucci­desse le donne. Ma negli ultimi 5 anni meno del 10% degli assas­sini sof­friva di pato­lo­gie psi­chia­tri­che. In più si parla spesso di depres­sione e si ali­menta un altro falso ste­reo­tipo per cui il depresso può diven­tare un folle omi­cida, dimen­ti­cando che sono pro­prio molte donne a sof­frire di que­sto disturbo e non per que­sto fanno stragi di mariti. Negli arti­coli e ser­vizi che riguar­dano le donne ammaz­zate, quando si dedica qual­che frase alle vit­time, se si trova qual­cosa di non con­sono alla morale comune come un amante o rela­zioni extra coniu­gali, non ci si limita nei det­ta­gli; oppure si rac­conta del rap­porto con l’omicida quasi a cer­care una qual­che causa o una colpa. Inol­tre la “gelo­sia” è fre­quen­te­mente pre­sen­tata come causa delle morti. Qui sta un dop­pio gioco di giu­sti­fi­ca­zione dell’assassino e di con­trollo fem­mi­nile, insomma dando la colpa alla gelo­sia si sta quasi ad indi­care alle donne di “far da brave”, di non avere com­por­ta­menti che pos­sano far sca­te­nare le ire del part­ner, come se le donne certe morti orri­bile se le cer­cano. La vio­lenza sulle donne è visto come male oscuro, raro, rele­gato ai malati di mente, agli stra­nieri inci­vili, a chi ha pro­blemi, a situa­zioni par­ti­co­lari, fal­si­fi­cando dati e insab­biando la tra­sver­sa­lità di tali omi­cidi. Poli­zia, magi­stra­tura, oscene cam­pa­gne con­tro lo stal­king non sono sicu­ra­mente dalla parte delle donne. Lo stato patriar­cale vive sulle discri­mi­na­zioni di genere e sullo sfrut­ta­mento delle donne. Per non par­lare poi delle imma­gini fem­mi­nili pro­pu­gnate dall’attuale governo che inol­tre, visti i tagli, costringe i cen­tri anti­vio­lenza a chiu­dere. Non è impresa facile l’analisi dei fem­mi­ni­cidi e del retro­scena cul­tu­rale in cui si com­piono tali delitti ma non si può esser indif­fe­renti al maschi­li­smo che accom­pa­gna la vita di tan­tis­sime. Comu­ni­care fra donne, rico­no­scere le stesse sof­fe­renze di cui mol­tis­sime sono vit­time e non vedersi più come pas­sive, impo­tenti o sole aiuta nella costru­zione di una rete soli­dale fra donne che è più potente di ogni forma di bru­ta­lità maschile.

Debs

1.  La Casa delle Donne ha svolto un’indagine sul fem­mi­ci­dio in Ita­lia nel 2010 (tutti i dati citati sono presi da tale inda­gine).↵

2.  www.femminismo-a-sud.noblogs.org e www.bollettinodiguerra.noblogs.org sono due siti che si occu­pano di donne e fem­mi­ni­smo e in par­ti­co­lar modo il secondo di fem­mi­ni­cidi.↵


Inferno? Cie di via Mattei, Bologna.

Pubblico qui un articolo scritto per Nueter

 

 

La lotte delle migranti è la lotta di tutte/i

Chi parla di sicurezza ormai troppo spesso parla anche di clandestini e immigrazione. Una delle immagini più usate è quello dello stupratore quasi sempre straniero e della donna bianca, la donna degli italiani, da difendere. Si mescolano così stereotipi sessisti e razzisti. Una delle conseguenze istituzionalizzate della xenofobia sono i Cie, lager per stranieri. Ovviamente in questi inferni non sono rinchiusi solo uomini dipinti come mostri ma ci sono anche tantissime donne. Queste donne però non sono da proteggere o difendere. Non sono le donne bianche, le italiane, le donne da sorvegliare. Le donne rinchiuse nei Cie sono trattate come delle criminali che subiscono, anch’esse, i deliri xenofobi usati per “questioni di sicurezza”. Ingabbiate. Di fronte agli occhi maschili delle guardie sono animali da rinchiudere o oggetti sessuali nella peggior ottica colonialista. Stupri, molestie, ricatti sessuali, pestaggi, offese e umiliazioni. Cibo scarso e con sedativi, condizioni igieniche inesistenti. Ma l’altra sera a Bologna le donne del Cie hanno detto no e le urla disperate per una volta sono giunte anche a noi. Il 24 agosto volano sedie e si incendiano materassi: si protesta perché quei lager sono invivibili. “Non siamo drogate né assassine, siamo qui solo per una questione di documenti. Qui dentro siamo troppe, fa molto caldo, ma noi non siamo animali. Per favore venite a vedere com’è la situazione qui, aiutateci” dice un delle donne rinchiuse. La risposta della polizia non si fa attendere riempiendo di lividi chi aveva alzato la testa e arrestando una di loro. I Cie ai margini delle città sono elemento chiave di politiche sessiste, razziste e repressive che vediamo quotidianamente. La lotta contro i lager non può essere separata dalle altre. Le violenze che subiscono le donne nei Cie riguardano tutte le donne ancor di più se si pensa che anche le donne italiane vengono usate in un’ottica paternalistica e razzista per legittimare i Cie. Sessismo e razzismo: ecco i veri mostri da cancellare.


Verdura

Una verdura buonissima. La porta sempre un vecchio compagno al nostro circolo. Ex brigatista mai stato cattolico, ora, di idee libertarie. O anarchici o buddisti. Parlava di cene meravigliose con un accento reggiano con pesanti influenze torinesi, un po’ informali. La severa critica ad un passato visto da lontanissimo e con grandissimo rispetto. Un po’ come la muraglia cinese. Accuse pesanti, fascino irresistibile che traspare solo in qualche battuta ironica concessa dopo quattro assemblee consecutive.

Autostrade fredde nei peggior lugli cinici come mai ci saremo aspettati. I cinesi poi sono strani, con l’estetismo forse me la cavo meglio. I rivoluzionari secchioni, pensavamo, si sposano benissimo con autogrill visitati poco, pochissimo, pensavamo, soli.

In attesa di nostalgici dadaismi con isterismi per mancanza di disarmi. Rotoliamo per non farci male, tra cose complicate che pretendiamo di capire, come una morte di libertà, come le urla dietro le sbarre. E non sappiamo niente nella nostra innocenza soffice come una culla, in bilico tra inferno e realtà. E non riesco a capire dove potrei essere meno stanca. Parli parli parli a insegnare giudicare criticare. Analizzare. Forse per noia. Come se fossi estraniato lontano da tutto. La voce diventa stridula, sei semplicemente qui vicino a me, non chissà dove, e puoi avere tutte le insicurezze che vuoi. Anche le mie.


Vicino alle pasticcerie

Immaginavo di stringerti forte come fanno i ragazzini fuori dalle scuole ogni tanto, anche con 40 gradi, senza vergogna per esser grandi, si baciano e chissà altro, per l’età. Se trovo quello che ha raccontato questa stronzata d’essere grandi. Grandi per capire per avere più problemi anche quelli che non sono tuoi. Uno straccio. Pregna di altro che non sono io. Problemi tuoi. Perché sei santa puttana madre domestica: dare un servizio. Non capisco. Ogni volta dico di si. Volevo essere via anche se era per farti soffrire. non esserci. Tremavi ti consolavo mi lasciavi la mano appena tutto era passato. Svanivi come i profumi dei dolci, rapido e agonizzante. Come le madri con i figli come ciondolare leggera su fiducie mai problematizzate e poi cadere. Come nei sogni, come quando ti svegli. Hai i miei capelli lunghissimi fra i denti come i nostri menti che si incastrano sulle spalle che è un buon motivo per alzarci tardissimo e inventare scuse per i nostri appuntamenti andati a male.


Quando capita

Non ha mai risolto i tuoi problemi con l’ordine, dici che ti adegui ad ogni variante di disordine, e tutto sommato resisti dignitosamente ad ogni cambio di tendenza. Ti lamenti sempre per il caffè, per le sigarette, per il tempo in cui non hai potuto guardarmi un po’ più da vicino. Gli affitti erano scoperti e i tubi ci piovevano sui tetti. I muratori erano tutti bolognesi e un po’ ti preoccupavi. Un sacco di polvere e litigavamo per vederci cinque minuti per riappacificarci in tre. Appena il tempo non sempre scontato per chiedermi come va. Toccarci non era all’ordine del giorno. Come la disoccupazione in Grecia o un revisionismo a caso. Sentivamo il caldo arrivare e non ci spostavamo pensando che il tempo si sarebbe scansato incontrandoci. Perdi i tuoi occhi in scollature consuete, mi baci i capelli, ti regalo poesie.


Discriminazioni e lavoro domestico: sfruttate due volte, doppia rabbia

Pubblico qui un mio articolo sul lavoro femminile uscito su “Nueter, foglio di agitazione anarchica di Bologna  e provincia” e su Umanità Nova

 

 

 

La parità di retribuzione e’ un nostro diritto, ma la nostra oppressione e’ un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico? “ Rivolta Femminile, 1970.

Primo maggio, festa dei lavoratori, ma molte lavoratrici non conoscono feste o ferie.  Le donne che ancora hanno il fardello del lavoro domestico non ricevono nessuna adeguata attenzione. Il lavoro di cura non è un retaggio del passato ma insieme alla particolarità di tutto l’ambito lavorativo femminile richiede un adeguata analisi che rivela discriminazioni taciute.

Negli ultimi anni le gravi divaricazioni salariali tra donne e uomini – secondo i dati Istat del 2008 all’incirca del 21% – persistono senza miglioramenti, accompagnate da un generale scoraggiamento che porta una donna su due a non avere un’occupazione e neppure a cercarla ( Istat, 2009).

La lettura dei dati si fa ancor più drammatica quando si tratta di donne sposate e con figli: in un periodo di crisi in cui il precariato è la normalità, la scelta della maternità risulta quasi inconciliabile con un’occupazione senza sicurezze. Spesso uno dei motivi principali per cui le donne lasciano il lavoro, o sono licenziate, sono i figli. I nuovi contratti a scadenza mensile non hanno nessuna attenzione per la maternità. Inoltre la famiglia o la possibilità di averla vengono sempre visti come una minaccia per la produzione.

Nonostante le difficoltà nel conciliare vita familiare e lavorativa molte donne continuano a lavorare doppiamente sopportando doppia fatica, doppio stress, doppie ripercussioni sulla salute ma senza aver in cambio alcun riconoscimento o aiuto. Più della metà delle donne ha ancora il carico del lavoro domestico anche se ha un impiego: il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne ( Istat, 2009). Oltre alle classiche ‘faccende domestiche’ che lasciano poco tempo libero e occupano tante ore giornaliere e notturne, non va dimenticato che l’assistenza ai malati e agli anziani è affidata alle donne della famiglia. Continuare a parlare di lavoro domestico è ancora oggi importante e utile per spezzare il silenzio delle prigioni familiari.

Il doppio sfruttamento femminile ha alla base secolari pregiudizi che vedono la donna come predisposta principalmente alla cura e alla riproduzione, un lavoro che si pensa non faticoso  ma che dia soddisfazione. Non sono quindi ancora morti quei luoghi comuni che vogliono le donne madri, crocerossine, instancabili, accondiscendenti e possibilmente sorridenti. Tutti modelli ancora presenti nell’educazione delle bambine, nelle pubblicità e nei prodotti culturali.

Oltre alle diseguaglianze di tipo materiale bisogna ricordare le molestie sessuali e psicologiche (come per esempio telefonate oscene, pedinamenti e in alcuni casi vere e proprio aggressioni) a cui sono sottoposte le lavoratrici. Secondo i dati Istat nel 2010 sono state  842 mila le donne a subire trattamenti di questo tipo. A tali violenze è difficile ribellarsi, sotto il pressante ricatto della perdita del lavoro. In più nel periodo di crisi nei luoghi di lavoro il clima diventa più oppressivo e ricattatorio, così come i tagli ai servizi sociali giustificati dalla crisi si traducono in un aumento del lavoro di cura. Le violenze inoltre si riscontrano soprattutto nell’ambito domestico in cui le donne della famiglia oltre a lavorare senza limiti sono minacciate dagli abusi da parte degli uomini quasi sempre parenti o conoscenti della vittima.

La salute delle donne è minacciata anche dalla generale insicurezza dei luoghi di lavoro, sempre più luoghi di morte. Ultimo drammatico episodio è quello che riguarda una lavoratrice della provincia di Lecco, rimasta uccisa da un macchinario del salumificio Beretta. Le morti bianche occupano sempre meno spazio sui giornali e mai si tratta degli incidenti che riguardano le lavoratrici, nonostante secondo l’Inail sono circa un terzo le vittime femminili del lavoro. Tale dato deve essere letto in considerazione alla maggior disoccupazione femminile rispetto a quella maschile, non esiste di certo una particolare attenzione al lavoro delle donne. Negli infortuni in itinere, invece, la quota rappresentata

dalle lavoratrici, è rilevante e pari precisamente al 46,1%. Questo dato è da leggere insieme a tutto quello stress accumulato dalle donne durante il lavoro domestico. Tantissime lavoratrici prima di uscire per recarsi sul posto di lavoro hanno speso ore e fatica in pulizie, cucina, cura dei figli o del marito, e altri compiti legati alla famiglia. Rispetto ad un lavoratore una donna si riposa anche meno non trovando nella casa un luogo di pace in cui sfruttamento e fatica terminano. Inoltre è doveroso porre l’attenzione su quei danni alla salute di cui ancor meno si parla, come la depressione, creati spesso da un doppio lavoro scontato e invisibile.

Riforme o goffi aiuti statali non aiutano di certo la posizione delle donne in ambito lavorativo e familiare. Anzi, spesso attenuano la rabbia e rafforzano i modelli maschilisti. È necessaria una rivalutazione costante dei rapporti fra generi che parta in primo luogo dalle donne che da sempre subiscono un’oppressione che, pur essendo nei secoli cambiata nelle modalità del suo manifestarsi, non accenna ad estinguersi. Perciò si ripresenta come assolutamente necessaria una riflessione delle donne, sulle donne, che non termini con la semplice negazione di un modello patriarcale, ma che apra invece la strada ad una lotta che combatta contro ogni sfruttamento.

Solo le donne insieme possono dar vita a una rivolta che non le veda più schiave e sfruttate, inserite in una società che per emancipazione intende lo  scimmiottamento di ruoli maschili. Riconoscersi e confrontarsi fra donne è importante per smantellare un sistema che preferisce ancora le donne a casa e per costruire un momento collettivo che dimostri la sua forza in ogni singola reazione contro le discriminazioni di genere.

Deborah

 


Ho visto un carabiniere ballare

Ho visto un carabiniere ballare. Senza volerlo, era una bella serata con quel jazzista che sembrava uscito da un fumetto. Quando pensi al jazz pensi ad una faccia così. E lui ballava e sembrava quasi umano, pensai che si sarebbe spogliato o sparato. L’erba ci voleva bene, la barista un po’ meno. Eravamo di/vini. Mi raccontavi come stavamo bene, volevamo dirlo a chiunque ma non riuscivamo ad alzarci. E se poi non riusciamo a tornare indietro? Ma che c’è dietro? Il jazz si fa così:

tiruttiruparaparattiturutiruttttuuuuriiituriti.

Mezzanotti che durano una settimana soffici come cotone. Le note che pesano nell’aria, mi giravo a cercare chissà cosa, incuriosita con troppa ingordigia. Ciondalare leggeri con luci ingannevoli tra un sax e un pianoforte. Non avevo più freddo e chiedendomi la strada per rientrare a casa allungavo il tragitto.