Non dire mi dispiace

Ancora un tiro e poi rientro. Devo farne mille, anche oggi anche questa settimana. Eppure san luca di sera l’avevo sottovalutata. Illuminata per niente bene. Chissà se si ti possono piacere le nuvole che l’accarezzano, chissà cosa ne pensi dell’inquinamento luminoso tra l’uscita della tangenziale e l’aeroporto. Chissà perché la certosa non l’accendono almeno un po’, avrei una distrazione in più. E non riesco a rientrare perché se allungo lo sguardo immagino tutta questa maledetta città tra santo stefano e lo stadio, tra via fioravanti e la zona industriale. Questa città con le mura trasparenti che mi stritola ancora dolcemente. E dio se mi piace. Come quando mentre scopi ti stringono la bocca per farti respirare a fatica con gli occhi che dicono: continua. Ma le nuvole ai giovani d’oggi non piacciono più. E poi se ci penso ancora un po’ non so davvero dove sono tutte le cose esattamente. Non ho mai imparato ad orientarmi e dire che di strada con lo zaino ne ho fatta che dentro ci fosse un fornellino o pietre. L’organizzazione conta, il metodo, la pratica, l’esperienza. E giù a torturarmi su ciò che è giusto su come si fa e come no. Sul rispetto per le altre gli altri. E poi se avanza per me stessa. Che con tutta la pesantezza che ho in testa “me stessa” mi sembrano due parole quantomeno poco sufficienti. Se solo pensassi un po’ meno, se potessi chiedere al mio cervello- e forse anche ai miei malesseri – di potersi far da parte. Meno sbatte. Tantissime di meno. E ora devo rientrare davvero che devo correre da una parte all’altra. Con tutte le persone a cui devo un ciao come stai, con tutte le chiacchiere da fare, per fare di un’altra settimana ancora un piano quinquennale. E chissà se ti possono piacere le storie della mia militanza imperfetta, le storie noiose di quando non ce la faccio più ma non lo dico mai e poi mai e poi mai. O di quando ce la faccio solo io. Eppure qualcosa mi manca, come un sassolino nella scarpa ma stiamo parlando in realtà di qualcosa che non c’è. Concentrati non ti distrarre, passerò così un po’ di tempo, ma non qui, ora, di fronte a tutti questi colli che non mi giudicano, la chiamerò incoerenza ma di nomi più belli ce ne sono a valanghe. E avrò sguardi da incrociare mail da scrivere messaggi da inviare per tenere su questo frullato di quotidiano di una vita scelta a testa alta, anche se sono bassa. E i cortei e i concerti le chiacchiere post assemblea i festival le iniziative gli articoli da leggere le feste le teste da tirare su dai lavandini la violenza, le telefonate che iniziano con dove cazzo sei, le sbronze le serate in cui guardi le albe al contrario con qualcuno che forse non volevi davvero con le amiche che nonostante tutto reggono. E nonostante tutto riesco anche a reggerle. E se non ci fossero loro? Sulla radio passano nina simone don’t let me ne misunderstood, che nonostante tutta questa cosa del mainstream mi piace come il primo giorno che mi dedicarono una sua canzone. Faccio finta che sia per me, una dedica come quando ero piccola, come quando la radio la si ascoltava di più. Che poi basterebbe così poco per qualche attenzione a caso in più. E chissà se ti possono piacere i dolci che mi mangio, la mia incapacità di fare la spesa, la mia paura del buio, e la mia poca sensibilità in merito ad alcuni grandi temi, il mio amore per le grandi periferie, il mio odio per lo studentismo. Basta perder tempo, se non l’hai messo in conto, se non era questo il momento giusto per avere distrazioni. Era un programma perfetto di anestesie e affetti indirizzati, un programma perfetto di vuoti da gestire con eleganza. E ancora non rientro. Anche se fa freddo e questa sigaretta doveva già essere finita. Eppure di cose da fare ne hai e se continui così si fa pure tardi. E mi trattengo qua fuori a congelarmi e a lasciarmi questi pochi metri quadri di terrazzino per le mie incoerenze, o chiamale come vuoi. Manco le voglie sentire le risposte, sarà più semplice, mi dico. Di tutta questa me stessa una parte la devo salvare. Anche se tutto ha un prezzo. Ma il conto lo gestisco io, il metodo si conosce, un sacco di mal di pancia, ingoiare e camminare. Succhiarsi il sangue che esce dal labbro dopo ore passate a massacrarlo. Mi dirò che sono stanca per tutti i miei crudeli contratti di lavoro, per gli scazzi e gli incazzi, per una notte di nichilismo ancora da rendicontare. Abbasso la serranda. E chissà come si fa a vedere dei fiori e a non rubarli.


Finire, almeno un po’.

Ero riuscita a tornare, finalmente tornerà tutto uguale, tutto senza casini, i mie deliri, i miei sbagli, avevi ragione tu te lo giuro. Nella città che meglio indossavi ritornavo e questa volta senza ingombrare, te lo posso assicurare. Ti vedo ovunque, con tutte le tue cose, le tue parole, le tue lotte. Appena vedo un corteo mi metto a tremare, se sento una canzone che ti piace, se vedo un ristorante cinese. Adesso riprendiamo andrà bene, vedrai. Mi metterò vicino a te e ti guarderò senza disturbare. Sei bellissima con i capelli nuovi, con tutte le cose imbarazzanti che dici senza decenza, con tutto il rossetto sbavato. Ho pensato che un giorno ho ritrovato una cosa nel mio ultimo trasloco, e che era solo una delle tante volte che mi tornavi in mente. Tornerà tutto a posto. Poi finalmente ti ho vista, mi è venuto da piangere, singhiozzavo come una cretina. Avrei voluto stringerti per tutto questo tempo per tutto questo tempo non immaginavo tutto questo. Eri bellissima, sempre vestita bene fino a un certo punto, sempre con cose interessanti fino a un certo punto. E tutte le tue amiche, e tutti i tuoi amici, e tutti i tuoi amanti. Allora sono scappata, mi sono venuti in mente tutti i pezzetti della vita che ti ho rovinata, cercavo di ricucirli cadevano, come ho potuto non ascoltarti mai abbastanza? Pensavo sarebbe bastato tornare qui, far finta di incontrati per caso, parlare del tempo, ballare vicino, anche questo casualmente per finta. Volevo tornare indietro, eri troppo bella per riuscirci. Siamo a un passo e mi sembra una voragine.


É capitato

Ciao, come va, è molto che non ci sentiamo. Si a parte l’altra volta che ci siamo incrociate sotto casa, e quella volta alla festa della tua amica, e ieri alla cena sociale, si no in effetti forse non è così tanto. Però ecco ti volevo dire, così en passant, senza peso, che mi è capitato di pensarti, così, mi sembrava carino dirtelo, perché ero in libreria, proprio quella in zona universitaria, che è una delle tue preferite e c’era questo libro che parlava di bologna, come se fosse una favola, ma che non finisce bene, e mi ha fatto venire in mente i tuoi discorsi che vivere qui sembra fantastico ma in realtà il malumore, l’ansia, l’apatia, ci mangiano. Aveva la copertina viola, pensavo, magari le piace. Era tutto scritto a piccoli capitoli, e tu dicevi spesso che se tutti i libri fossero così non ci sarebbe la crisi dell’editoria e di quelli che si laureano in lettere. Poi uscita da lì ho preso il caffè al bar, e anche lì ti ho pensato, così un pensiero leggero, perché il caffè al bar fa una sega a quello a casa, e pensavo all’ultima volta che io volevo fartelo, sempre a casa, credendo fosse un gesto carino, e tu hai dedicato 15 minuti a spiegarmi che il bar ha il suo valore, ancora. Scadevi nell’eticismo, se ti avessi lasciato parlare qualche secondo in più. Poi c’era lo zucchero di canna. È vero tutti ormai sono consapevoli della questione zucchero di canna, ma tu mi sembravi un po’ più decisa di tutte e tutti in questo, quindi ti ho ripensata. Ma è capitato così per caso, come l’altra sera che ho visto una ragazzina che staccava la locandina di un concerto e diceva che ne faceva collezione e pensavo a quando tutti i tuoi rotoli di locandine ci sono cascati in testa, una di quelle poche volte passate in casa. Non sia mai fermarci un momento per non so, una tisana, sempre di corsa, stare sul pezzo. Una chiacchiera inutile? no. Ecco quel pomeriggio non facevo proprio niente, e pensavo che non avevo l’ansia che tu hai sempre avuto per i tempi morti, e quindi mi sei venuta in mente. Ma così è capitato, senza impegno. Tu per fortuna, per come sei, probabilmente, non mi pensi mai, o sei bravissima nell’evitarlo.


Periferia sud e poco più in là

Ti ho chiamato l’altra sera, mi hai mandato un messaggio ora non posso rispondere la solita giornata di merda. Sarà la terza quarta volta che ho pensato di scopare con te, in questo ripetersi millenario di sogni sempre uguali, mi andava di dirtelo, senza sentire la risposta, giusto per non raccontarci sempre le stesse cose, come il lavoro e l’attesa delle vacanze e della pensione. A Bologna le sette del mattino sono sempre uguali come la strada al contrario, i vestiti pieni di fumo, le orecchie sotto cassa, o le scarpe per andare a lavorare. Ti regalerei una gita sotto i portici, fino alla periferia, quelle senza studenti fuori sede e stanze umide da 400 euro, per farti vedere la scritta sul muro di piazza Belluno “Al Savena non si arriva resiste Bologna”. Alle scuole aperte con la neve, al contratto che sta per scadere, agli ascensori con gli specchi rotti, alle tue telefonate scarse, alle morti per overdose, ai figli non voluti. Forse ne vale la pena, invece, per la tazzina sempre pulita che io non la lavo mai, o per quella volta che ci siamo incontrati dopo anni, senza avvisarci, e sembrava ci fossimo messi d’accordo anni prima. Poi tornando a casa, piangevo un po’, t’immaginavo felice, lontanissimo da me. Cantavo le nostre canzoni, che ci vorrebbe un secolo a spiegarle. Spero tu sia felice, che mangi bene, che hai i soldi per i concerti, e che fumi poco.


Al di sopra dei nostri mezzi

Le patatine fritte e il caffè dell’autogrill. Ogni volta che rido di te o con te ho questi sapori in bocca. Sarà per la regola generale per cui non si va in gita senza fermarsi a prendere il caffè, o per quella sana abitudine che vuole le patatine alla fine di ogni pasto. Non per essere punk ad ogni costo, ma per aver le idee chiare almeno sul cibo. No expo e no veg fino alla vittoria. Fuori da Bologna, nella tempesta di zanzare della bassa il caffè a me piace sempre. Anche nelle altre direzioni, ma un po’ meno. Corteo, corteo con scontri, fiume, museo, mostra, festival, visita agli amici, visita medica, lauree, presentazione di, dibattiti su, in macchina, in pullman. Passare oltre le colonne d’Ercole rende il caffè necessario e gustosissimo. L’Esselunga di Santa Viola, Il Lunetta Gamberini, l’Ippodromo, il bar Ciccio, il sottopassaggio di via Zanardi, il nuovo Lazzaretto dove è già campagna con i techno party e i girasoli lunghissimi. Tra la tangenziale e la ferrovia. Ecco, lì basta pochissimo, un qualsiasi barettino, se sporco meglio, per farmi felice. Ci sarebbe da metter in conto alla felicità anche le volte che hai dimenticato il libro, la giacca, lo zaino, le chiavi, il portafoglio, il cellulare, il motivo per cui salivamo in macchina. Il rifiuto inconscio della materialità. E fra tutti quei caselli o ci vantiamo o ci lamentiamo. In mezzo piazza verdi pulita, che è un po’ il compromesso a cui vorremo arrivare, essere felici della nostra irrequietudine e godere senza strazi di tutto quello che c’è in più di quel che ci meritiamo, come le patatine dopo il kebab.


Figlia

Mi sarebbe piaciuto essere una figlia come Chicchi. Lei alla mamma diceva tutto, i nomi dei compagni di classe, i pettegolezzi tra i compagni di classe, che cosa faceva il sabato sera. Si sentivano al telefono in continuazione, e se Chicchi diceva “sono con tale” la mamma capiva subito chi era “Tale”, non faceva mica come la mia che esco con le stesse persone da vent’anni e ogni tanto mi fa “ah perché si è trasferita anche lei a Bologna?”. La mamma diceva a Chicchi che era necessario dirsi tutto che erano come amiche e sarebbero state sempre insieme. Poi Chicchi ha capito che l’università di lingue non era il massimo e che per diventare una maestra bisognava andare a Cagliari, 300 km più o meno, tre ore di macchina o due ore e mezzo in treno quando metteranno il treno nuovo, quello veloce. Per ora ce ne vogliono cinque. La mamma di Chicchi non la prese benissimo. Mi stai tradendo le diceva e nel mentre Chicchi cresceva, per fortuna è partita, ora è una maestra e dice che vuole almeno tre figli. Chicchi a quasi trent’anni era ancora vergine, nonostante i miliardi di ragazzi con cui è uscita, perché è iper simpatica, ha due tettone bellissime, dei ricci infiniti, e piaceva praticamente a tutti. Scartando quell’ovvia kilata di uomo medio ti offro da bere fammi vedere un capezzolo, Chicchi di ragazzi carini, seri e rispettosi ne ha conosciuti. Non ne andava nessuno, una specie di maledizione. La mamma era sempre informata su tutto, pomiciate occasionali e pianti strazianti, nonostante il treno veloce non fosse ancora arrivato. Un giorno mi ha detto che alla mamma aveva smesso di dirle un sacco di cose e che sabato sarebbe uscita con uno, ma che la mamma avrebbe saputo che era in giro con me e che forse mi avrebbe chiamata, c’era da reggere il gioco. Chicchi alla fine ha scopato, quando fa l’amore gode un sacco, anche se a lei piace narrarsi come zitella in attesa del velo bianco. La mamma s’arrangia tra un marito odiato e mai sbattuto fuori di casa e il suo orto meraviglioso che ha regalato cesti di ciliege a tutto il quartiere. Chicchi ancora non mette le scollature e si preoccupa ancora tanto dei pregiudizi degli altri, poi arrivo io con i discorsi sulle sovrastrutture culturali per dirle alla fine che sei lei ne può sorridere va benissimo e che se ne ha bisogno a difenderla ci penso io, ma se la cava alla grande. Ogni tanto mi dice vorrei avere una mamma come la tua, che non si è mai ricordata la sezione della mia classe del liceo ma che una sera mi disse “guarda che lo so che hai iniziato a strombazzare, quindi se vuoi i soldi per i preservativi te li do, e poi dobbiamo andare dal ginecologo, ah e poi io sono per la convivenza guai a te se ti sposi!”


Foto, Canale delle Moline

SDC12580

Ti ricordi quando siamo arrivate a Bologna? E questa foto? Mi dicevi che non c’era bisogno di fotografare niente perché non siamo qui di passaggio, ma ci avremmo vissuto un bel po’. Ma a me sembrava di essere in un viaggio bellissimo di non potermi perdere niente che Bologna sarebbe stata sempre una gita di primavera. Così ho fotografato i palazzi sul canale che stanno dalla parte opposta alla piccola Venezia, e a te sembrava assurdo perché proprio in una di quelle case ci saresti andata a vivere. Sono stati anni vivaci, dove abbiamo scoperto la crudeltà della vita da fuori sede e le soddisfazioni intellettuali, giornate in cui potevamo diventare chi volevamo, perché eravamo come viaggiatrici che del posto prendevano tutto come se avessimo paura che potesse sfuggirci. Poi siamo diventate residenti. Abbiamo perso lo sguardo disincantato ed aver fotografato casa tua mi sembra così stupido adesso. Ora che le foto ci ricordano tonnellate di sogni andati a male che si scontrano con la miseria della nostra quotidianità fatta di continue provocazioni come la sveglia all’alba e i contratti di lavoro indecenti. Come l’impossibilità di sperare in giorni sereni in cui sentirsi qualcosa dentro. Come abbiamo fatto a bruciare tutto così in fretta? I palazzi in bilico con tutta quell’umidità avrei giurato che sarebbero caduti prima delle nostre lauree, o che i topi avrebbero risalito i muri e sterminato tutti quelli che abitano in questi palazzi. Te compresa che hai sempre avuto questa ossessione di vivere in centro, anzi in zona universitaria. E forse te lo saresti meritato perché gli studenti che non escono mai dalle mure mi infastidiscono proprio, loro sono la peggior specie di chi diventa residente troppo in fretta. Ancora mi chiedo che fine fanno i panni dei fili per stendere che cadono nel canale, sono sicura che nessuno è mai riuscito a recuperarli. Chissà poi perché avevo scelto il bianco e nero. Quanti coinquilini si saranno sprecati dietro quelle finestrelle e sotto quelle piantine. Migranti come noi che hanno perso la gioia della ricerca, intrappolate ormai tra le vecchie foto che ci ricattano con i ricordi e l’impossibilità di desiderare giorni come quelli del canale delle moline


Io scrivo

Io scrivo per evitare le pulizie, il lavaggio dei vetri, e il riordino della libreria

Io scrivo per avere una scusa per comprare nuovi block notes

Io scrivo perché ci sono certe cose che proprio mi sembra brutto sprecare,
che magari poi ce le dimentichiamo.

Io scrivo per conservare, archiviare, dare un posto a piccole cose che mi piacciono.

Come quella volta che avevo l’influenza e se stai male da fuori sede la cosa è più grave.
E mentre avevo già impostato la versione della precaria resistente
sei arrivato con un fiore di carta e un barattolo gigantesco di zuppa dal colore inquietante.
C’era anche un biscotto l’ho mangiato tutto e subito e ho conservato la carta stagnola nel cassetto delle mutande.

Io scrivo perché a volte vorrei andare in un bar e fare una rissa

Io scrivo perché qualche volta vorrei pomiciare gente a caso

Io scrivo perché è un po’ come la sete, sempre torna.

Io scrivo perché il mio vicino di casa stira la camicia ogni santa mattina alle 7
e solo io posso vederlo dalla mia finestra del bagno.
Sono sicura che lui se ne vergogna e che ci tiene a conservare questo segreto solo con me.

Io scrivo perché mi piacciono i tuoi occhiali neri e spessi, come centinaia di altri occhiali.

Io scrivo perché quando sono arrabbiata lavi sempre i piatti.

Io scrivo perché aggiusti i computer come se scrivessi poesie.

Io scrivo perché scrivi poesie come se salvassi il mondo.

Io scrivo per delle cose impercettibili che sembra mi salvino.
Come quando è una giornata davvero di merda, e Giulia mi lascia il caffè sul comodino, svuota la lavatrice, compra i cioccolati e non mi chiede niente. Cosi come dev’essere.

Io scrivo perché è come ballare fino alle 8 del mattino e poi andare a fare colazione con il rossetto ancora integro.

Vorrei avere qualcosa di interessante da dire, o di divertente, o dire che scrivo perché mi piace.
Ci sono delle cose che temo possano sfuggire, ci sono cose che voglio trattenere.
Io scrivo per trovare posto alla carta stagnola, al caffè sul comodino,
e alle persone con gli occhiali.
E se non riesco mi viene un certo fastidio come quando si butta via la roba da mangiare.


Non ricordo

Non ricordo i nomi delle mie colleghe del primo anno di Lettere moderne. Non ricordo se vivessero a Sassari o in uno dei milioni di paesini attorno alla città, i loro autori preferiti, i loro sogni, se al bar prendessero il caffè o il cappuccino. Se scrivessero con la penna o la matita. Comunque sia erano tutte dolcissime con una spiccata solidarietà per ogni studentessa di fronte all’esame di storia romana.

Non ricordo mio babbo quando fumava. Se lo facesse con la destra o la sinistra, la marca delle sigarette, la ricerca dell’accendino. Aveva smesso per la festa della mamma.

Non ricordo un periodo in cui non avessi impegni

Non ricordo più dove ho messo il poster delle Spice Girls.

Non ricordo quando ho iniziato ad ascoltare la radio, forse un inizio non ci è proprio stato. A volte non ricordo il momento della giornata in cui l’accendo. È diventato come lavarsi i denti, o allacciarsi le scarpe.

Non ricordo niente del catechismo, per fortuna.

Non ricordo quando ho letto il mio primo libro femminista, quando sono diventata antifascista e quante volte ho spiegato al bidello della scuola che anarchia non vuol dire caos. E che se i bambini fossero anarchici lavorerei gratis.

Non ricordo tantissime feste di capodanno.

Non ricordo se ti mangiassi le unghie, se avessi la barba o i baffi. Non ricordo la forma dei tuoi piedi, se indossassi camicie o magliette. Non ricordo se fosse amore o noia.

Non ricordo più la prima lettera scritta al computer.

Non ricordo che cosa si provasse a saltare forte nel lettone.

Non ricordo la casa ad Olbia, la mia prima casa, escluso un soffitto altissimo e il caminetto. Non ricordo la via, il quartiere, le vicine di casa a parte il fatto che fossero vecchissime. Era l’epoca pre-Giulia, quando ancora non era nata, e forse per questo motivo non ci è proprio permesso ricordare qualcosa prima del suo arrivo. Giulia è arrivata nella casa del quartiere Latte Dolce di Sassari, la sua prima casa.


Chiacchierare

È già suono in sé come suono è tutto ciò che richiama cori, canti, chiasso. Abbandoniamo gli elementi negativi quali il rimando al troppo rumore, come se il silenzio fosse un valore o un dovere, e la sua presunta futilità. La chiacchiera è atto che pretende poco ma tanto fa. Dà sollievo, mette in moto i pensieri, guarisce gli animi e condisce meravigliosamente le pause dal lavoro. Io sono contenta delle chiacchiere in ascensore, di quelle dei bimbi appena svegli, di quelle nei bus e alle fermate dei bus, di quelle della mia collega che sono davvero noiose ma pagherei per non farla smettere perché sento il suo sollievo nel riempire le aule. È una pratica narrativa, o una sorta di autoanalisi, è intrattenimento, o semplice spettegolare. Lo puoi fare con tutti, senza chiedere per forza età sesso o genere. A volte in tutte quelle parole si può perdere il senso del tempo, racchiudersi in lunghi periodi con poche pretese. È una pausa dal mondo che mondo crea. Provate a riempirvi delle sensazioni date dalle chiacchiere delle russe alla Montagnola di domenica pomeriggio, dei muratori arrabbiatissimi al bar di via Arno attaccato alla sede del quartiere, o quelle di una mamma con una figlia, o delle vecchissime vicine di casa, che sono vicine da subito dopo la guerra, che si conosco a memoria eppure continuano imperterrite a interessarsi una dell’altra per chiedere e rispondere cose che fanno solo rumore. Cose inutile ma che muovono vita. Sono sicura che ci sarà un totale abbandono dei margini di negatività attorno al chiacchierare, e si arriverà a dire che uno che chiacchiera è pieno di vita, o che contribuisce al miglioramento del pianeta. Si può piangere, o sorridere, si può bisbigliare o gesticolare: non importa, fa bene allo spirito, ed è gratis e senza limiti.